Veloce come il vento è uno di quei film che, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto passare inosservato sin dal momento della sua prima uscita in sala (aprile 2016). Questo sia per una certa quantità di record “di produzione”: il suo regista è il più giovane cineasta italiano, classe 1982, ad aver ricevuto il Nastro D’Argento come miglior produttore col film Smetto quando voglio (2014); ha lanciato nel firmamento del cinema italiano l’attrice esordiente Matilda De Angelis; l’auto “coprotagonista” del film è uno dei due rarissimi esemplari presenti al mondo di Peugeot 205 Turbo 16 (campione del mondo di Rally nel 1985 /86); e, come se non bastasse, la pellicola è stata esportata in almeno 40 paesi del mondo, cosa che in un’industria cinematografica prettamente “casalinga” fa sicuramente notizia. Ma anche perché si distinse da subito nel mare magnum dei film prodotti e usciti nel suo stesso anno, per la sua chiara appartenenza ad un genere, da sempre “trascurato” dal cinema nostrano: il film d’azione.
Veloce come il vento, soprattutto nella traduzione internazionale del suo titolo Italian Race, denuncia da subito la sua appartenenza al genere d’azione, a quella tipologia di cinema in cui le sfide che i protagonisti dovranno affrontare per raggiungere i loro obiettivi, la fanno da padrone, spesso sacrificando l’approfondimento psicologico dei personaggi (ritenuto come elemento secondario) in nome della spettacolarità dell’azione. Il talento di Matteo Rovere, per chi scrive, è stato dunque in maniera indubbia prima di tutto di riuscire a girare un film d’azione tutto italiano (girato anche fisicamente in location nostrane come Matera Imola e Roma e i circuiti di Vallelunga, Imola, Monza e Mugello) e di farlo senza dimenticare la lezione melodrammatica nazionale. Perché nel suo film Rovere è riuscito a coniugare in modo avvincente e convincente il family-drama con le originali scene girate durante gare reali di campionato italiano GT. A tal proposito può essere interessante conoscere alcuni retroscena della produzione, che per film di questo tipo devono necessariamente essere idee organizzative particolari e coraggiose (onore al merito di Procacci e della Fandango): per avere inquadrature dell’auto di Giulia/Matilda De Angelis in corsa, dentro e fuori dall’abitacolo, la produzione ha contribuito all’iscrizione di una macchina al vero Campionato GT, dipingendola poi con i colori dell’auto della protagonista. In tal modo sono state realizzate “dal vero” alcune sequenze in corsa che altrimenti, una produzione a basso costo come questa, non avrebbe potuto permettersi di girare data la presenza di incidenti, e macchine lussuose da “sfasciare”.
Ecco che la doppia professionalità di Rovere come regista e produttore, ha sicuramente giocato un ruolo determinante nella riuscita del film, in primis come prodotto degno di nota per la sua stessa realizzazione. Ma Veloce come il vento non è solo un film interessante da un punto di vista produttivo. È anche una pellicola che sia per la collocazione in un contesto culturale e sportivo (le competizioni motoristiche) spesso non ampiamente sfruttato, sia per la contemporanea ambientazione nella regione da sempre patria naturale di tale contesto (l’Emilia Romagna dei motori) è capace di rivolgersi ad un potenziale pubblico sconfinato. E in questo terreno fertile si è certamente alimentata la grandissima performance di un attore come Stefano Accorsi/ Loris De Martino, qui imbruttito, dimagrito ed “efficacemente tossico”, che in questo film probabilmente per la prima volta riesce davvero ad essere interprete e non più personaggio. Lasciati da parte i suoi ricorrenti gigionismi, la vanità, l’estetica del “belloccio che sa di piacere”, le mille conquiste amorose, Accorsi si lancia in questa prova senza paracadute, e trova una effettiva maturità come attore, conquistando in un solo colpo David di Donatello e Nastro d’Argento come miglior protagonista. Complice il dialetto bolognese a lui congeniale e familiare, che farà entrare nella storia del citazionismo cinefilo le sue imprecazioni (“Vacca boia!”) e i consigli di guida alla sorella in corsa (“Taglia la curva non farla tonda!...Tagliala! …cazzo ma fa le curve tonde? Le devi addrizzare le curve, guidi troppo pulita, le fai tonde le curve, le fai tutte tonde!).
Suggestiva anche la presenza scenica della De Angelis, che forse viene parzialmente travolta ed oscurata dall’ottima prova di Accorsi, ma si fa certo notare per la sua giovane intensità. Dunque il film scorre davvero veloce tra gare, inseguimenti e rombi di motori, intervallati dal racconto del dramma familiare alla base dell’intreccio. I valori fondamentali della casa, della famiglia trovano una originale riconferma grazie all’importanza che viene loro riconosciuta persino da un eroe non esattamente o non del tutto positivo come il personaggio tossicodipendente di Loris /Accorsi. Anche questa concessione anti-manicheista ci fa senz’altro amare ancora di più i personaggi rappresentati e ci avvicina a loro per tramite di una moderna empatia dello spettatore simile a quella sperimentata anche nel contemporaneo Lo chiamavano Jeeg Robot. Altro bellissimo esempio di identificazione empatica con un personaggio in partenza negativo.
Infine citiamo un’altra chicca del film, che val la pena di essere ricordata e notata con attenzione: il grandissimo lavoro sul suono (anche qui un Nastro d’Argento al miglior sonoro), con il suono dei motori in pista costruito da zero, e la registrazione di circa quaranta ore di materiale sonoro tra cui i motori, ma anche il ruggito di un leone, il coro di una chiesa, il rumore dei boiler industriali...per un effetto finale assolutamente coinvolgente e stereofonico.