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“L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” e l’appeal dell’apologia

Con L’incredibile storia dell’Isola delle Rose Groenlandia, realtà produttiva fondata dallo stesso Sibilia e da Matteo Rovere, orientata al marketing internazionale e alla collaborazione con colossi come Netflix e Sky, ribadisce il proprio marchio di fabbrica in merito alla commedia: un prodotto di qualità, con un appeal emotivo su un pubblico vasto, che rifugga sia la matrice televisiva, sia una grana più sottile ma comunque legata alle idiosincrasie nazional(popolar)i. In questo caso punta su una generica apologia della libertà personale, in linea col nostro spirito del tempo ma ben attenta a non addentrarsi in alcun reale discorso politico, e una sempreverde presa in giro del potere costituito. 

“Le belva” e la lezione di genere

Dichiariamolo subito: l’impressione di déjà vu è fortissima. Ma è  proprio qui secondo noi, che si gioca la partita. Lavorare con un materiale narrativo scarno e molto noto e provare a renderlo comunque personale, cercando un intrattenimento di qualità, tecnicamente ben rifinito con una scrittura e una recitazione curate, senza sentirsi obbligati a sfoggiare un qualsivoglia bisogno di autorialità e senza nemmeno scadere nello scimmiottamento di cinematografie a noi lontane. Al netto di qualcosa che non gira come dovrebbe, il risultato è apprezzabile e di piacevole fattura.

“Il primo re” e il conflitto epico

L’ambizione smodata che guida la mano di Matteo Rovere nella realizzazione de Il primo re non è solo quella di mostrare le potenzialità del cinema italiano ai suoi massimi livelli, ma anche e soprattutto quella di confrontarsi senza esitazioni con la potenza comunicativa del mito, inteso come principio e fine di ogni storia mai raccontata. La faida tra Romolo e Remo non ci viene presentata infatti come mera celebrazione di un racconto fondativo nazionale, ma come parabola morale sulla nascita della civiltà e sui primi approcci dell’uomo con il potere e il soprannaturale. I barbari primitivi che popolano il Lazio, al pari delle scimmie di 2001 Odissea nello spazio, trovano nella violenza l’unico strumento adatto a compiere il salto evolutivo necessario per sopravvivere in un mondo spietato e tribale, dove la natura si accanisce sugli uomini superandoli in brutalità, quasi come se volesse difendersi dalla rovina che verrà.

Azione italiana. Ripensando a “Veloce come il vento”

Veloce come il vento è uno di quei film che, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto passare inosservato sin dal momento della sua prima uscita in sala (aprile 2016). Questo sia per una certa quantità di record “di produzione”: il suo regista è il più giovane cineasta italiano, classe 1982, ad aver ricevuto il Nastro D’Argento come miglior produttore col film Smetto quando voglio (2014); ha lanciato nel firmamento del cinema italiano l’attrice esordiente Matilda De Angelis; l’auto “coprotagonista” del film è uno dei due rarissimi esemplari presenti al mondo di Peugeot 205 Turbo 16 (campione del mondo di Rally nel 1985 /86); e, come se non bastasse, la pellicola è stata esportata in almeno 40 paesi del mondo, cosa che in un’industria cinematografica prettamente “casalinga” fa sicuramente notizia. Ma anche perché si distinse da subito nel mare magnum dei film prodotti e usciti nel suo stesso anno, per la sua chiara appartenenza ad un genere, da sempre “trascurato” dal cinema nostrano: il film d’azione.