Conseguenze della dottrina Mitterrand: in Francia, l’accoglienza di terroristi, colpevoli di omicidi politici durante gli anni di piombo, in quanto considerati combattenti di una guerra civile contro lo Stato; in Italia, un coacervo di imbarazzi istituzionali e legittime recriminazioni delle vittime. Poi ci sono le vittime collaterali, compresi i cari di coloro che sono fuggiti dalla patria per rivendicare altrove le ragioni di una (mancata) rivoluzione barbarizzata dalla lotta armata. Marco Lamberti, esule oltralpe da vent’anni, non ha dubbi: il delitto per cui è stato condannato era un’azione di guerra, le responsabilità sono collettive e non individuali, l’Italia deve ammettere le sue colpe: E anche l’intellighenzia francese non ha dubbi: è un intellettuale, non un criminale.

Tema che ciclicamente torna nel cinema italiano, il terrorismo degli anni Settanta – o per meglio dire: gli strascichi di quella stagione – è al centro di Dopo la guerra, che sin dal titolo restituisce la prospettiva di chi è scappato, appunto, dall’anomalo fronte bellico metropolitano: there will be blood, ma chi laverà il sangue dei morti? Chi medicherà le ferite di coloro che restano? Sulla scia del fondamentale (ed ormai lontano, ma allora così prossimo da risultare già potente ed inquietante, per motivi forse diversi da quelli che susciterebbe oggi) Colpire al cuore di Gianni Amelio, Annarita Zambrano coglie benissimo il nesso tra lotta armata e borghesia. In qualche modo, Lamberti (Giuseppe Battiston) potrebbe essere un figlio ideale del professor Jean-Louis Trintignant: ma se Amelio si serviva della dimensione borghese per descrivere in oscuri interni l’incomunicabilità ovattata dei padri e l’incredibile buon senso dei figli, Zambrano ne individua altresì il luogo ideale per raccontare il dopoguerra, attraverso il rancore, l’angoscia, la rabbia di chi ha vissuto nella tenebrosa luce riflessa dell’ingombrante figlio perduto (ora padre).

Quel che resta della famiglia Lamberti (madre e sorella sposato ad un magistrato), infatti, vive non a caso in una villa sui colli bolognesi, separata dalle tensioni di una città sì memore delle sofferenze passate ma anche nostalgicamente incapace di distaccarsene con serenità. Lo dimostra chiaramente l’incipit, ambientato nel 2002, quando uno scontro nell’aula occupata tra i giovani e un giuslavorista piuttosto simile a Marco Biagi anticipa o annuncia l’omicidio del professore. In concomitanza con la fine della dottrina Mitterrand, che pone Lamberti, accusato di aver ispirato (indirettamente o meno non importa) il delitto, nella condizione di fuggire un’altra volta.

Con la sua ricostruzione anacronistica e posticcia, l’incipit è una dichiarazione d’intenti: Dopo la guerra si fa ingabbiare in un’eccessiva rincorsa alla rappresentazione, in cui l’atavico scontro interno alla sinistra tra riformismo ed estremismo è restituito da due figure che non si incontrano mai: da una parte, l’ambiziosa e scrupolosa “toga rossa” Fabrizio Ferracane, dall’altra, il mai pentito Battiston, che recitano meglio di quanti i dialoghi offrano loro di affrancarsi dall’appiattimento sui mondi che sintetizzano. Va da sé che risultano essere i due personaggi meno sfumati, i più ancorati all’esigenza didascalica, a differenza delle parti femminili, specie il rabbioso tormento di Barbora Bobulova, benché fosse lecito aspettarsi un colpo d’ala dai pesanti silenzi che la madre Elisabetta Piccolomini fa esplodere nel sottofinale come se niente fosse. Pur ben confezionato, Dopo la guerra rischia di non saper venir a patti con il tema che si propone di raccontare: e, nonostante sia più concentrato sulla componente emotiva del dramma, serpeggia il dubbio che sia un film probabilmente inadeguato a rivolgersi ad un pubblico digiuno di storia, politica, giornalismo, terrorismo (che più che ignorante può essere, sic et sempliciter, giovane).