Al centro di tutto c’è sempre Norma Jeane. Dall’infanzia traumatica fino alla controversa morte, il viso di Marilyn Monroe è abbagliato dai flash, dalle lampade di una sala operatoria, dalla luce del sole su una spiaggia. Sempre. Nemmeno gli improvvisi passaggi al bianco e nero che Andrew Dominik impiega come lente deformante di una realtà patinata riescono ad oscurare tutto questo eccesso di luminosità. Ma poiché Blonde è un film fatto di dualismi, tra vita pubblica e privata, realtà e leggenda, vero e falso, nascita e morte, dove c’è la luce c’è anche il buio.

Il disagio profondo, mai del tutto rivelato nella vita reale di Marilyn Monroe, lo si riscontra nella mimica facciale estremamente contenuta, ma finché mai eloquente, della bravissima Ana de Armas. Un disagio che non esplode mai, e nemmeno implode, che si è stratificato nel tempo e che si rivela nelle sequenze allucinate alternate a episodi di irrefrenabile violenza psicologica e fisica. Norma Jeane subisce e ingoia tutto. Marilyn agisce, ma non ottiene niente.

I pochi momenti di equilibrio vengono spazzati via da un evento ancora più destabilizzante, o comunque ogni piccolo accenno di felicità sembra nascondere un amaro presagio. I successi sul grande schermo che passeranno alla storia si susseguono passivamente uno dopo l’altro, il successivo fagocita il precedente, quasi come nel ciclo della catena alimentare. I tre aborti sono esibiti senza alcuna pietà, quasi a trattarsi di esperimenti da laboratorio.

È la ferma e fredda condanna della macchina del cinema, raramente rappresentata in un film in maniera così negativa, in cui non si è mai davvero una persona, bensì l’ennesima pedina da muovere nel flusso della concorrenza; nessun addetto ai lavori, nessun familiare e nessun amante la può aiutare: perfino Arthur Miller (Adrien Brody), dipinto come buono, equilibrato e comprensivo, indugia un’infinità di secondi prima di soccorrerla dopo una grave caduta sulla spiaggia.

Se l’ordine cronologico degli eventi cardine della Monroe coincide e rispetta il vissuto della sua figura, Dominik fotografa ogni tappa ispirando le proprie scelte stilistiche (finzione) a immagini di repertorio (realtà): il risultato è la disgregazione della continuità narrativa, un continuo salto da uno stato mentale a un altro, un incessante accanimento fino alla definitiva lacerazione. Cosa è finzione? Cosa è realtà? Sappiamo solo che al centro c’è sempre Norma Jeane, come una gigantografia appesa a un palazzo, alla portata dello sguardo di tutti.