Il progetto Buena Vista Social Club nasce nel 1996 da un’idea del geniale Ry Cooder che desidera rispolverare la memoria musicale de L’Avana e porre all’attenzione del mondo intero l’esaltante esperienza di artisti che erano parte di una comunità dotata e carica di promesse nella prima metà del Novecento sotto l’austero regime del generale Fulgencio Batista. La rivoluzione che porterà Fidel Castro al potere nel 1959 (nelle prime immagini c’è la foto del Líder Máximo davanti all’imponente statua di Abraham Lincoln a Washington, rappresentati come Davide e Golia) muterà i costumi sociali causando la dispersione di quelle energie talentose.
Il compositore e chitarrista californiano (che si presenta, in un circuito spazio-temporale, a bordo di un mitico sidecar insieme al figlio Joachim, giovane batterista) richiama alcuni dei protagonisti di quel periodo, ormai attempati ma animati da uno spirito vitale non comune, e li invita a registrare un disco di canzoni della tradizione cubana (con nuovi e ritmati arrangiamenti), pubblicato nel 1997, che diventerà un best seller internazionale.
Segue la scia di quel sorprendente successo il film di Wim Wenders, che, affascinato (perennemente) dalle culture altre e da arcane armonie e reminiscenze latine, usa la tecnologia digitale in un momento storico in cui non era certo la norma (poi ampiamente diffusa nel nuovo millennio) e con l’intento di sperimentare una messinscena chiaroscurale che sembra illuminare le ombre della Storia, le strade bagnate di El Malecón, i suggestivi tramonti sudamericani, i volti segnati dal tempo dei musicisti.
C’è una luce salvifica nei luoghi ripresi dal regista tedesco, che li riscatta dalla miseria dei ghetti e li consegna ad un’“archeologia del futuro” grazie ad uno sguardo cinematografico che attraversa, sospeso, un gelido passato, un appassionato presente e un domani che non sembrava essere così epico e colorato.
Le nuance di stili, di toni, che ammiriamo nelle strutture architettoniche e teatrali, persino negli edifici abbandonati o nei murales (con parole immortali: Esta revolucion es eterna e Creemos en los sueños), e che similmente ascoltiamo nelle melodie di brani che fermano istanti seducenti (tra gli altri: Dos gardenias, Veinte Años, Quizás, Quizás, Quizás), non possono che invitarci a sognare da partecipi spettatori di un decadente (e alternativo) musical hollywoodiano.
Significativo che il film inizi con un concerto nel Vecchio Continente al celebre teatro Le Carré di Amsterdam, e si concluda con l’esibizione nel Nuovo Mondo alla Carnegie Hall, emblematica sala di New York, nel 1998. C’è un’infinita curiosità e una continua esplorazione di sonorità, visioni, in questi raffronti tra “universi”, cari al cineasta del Neuer Deutscher Film, che si sfiorano ma non si toccano come quando in una divertente passeggiata per le vie di New York i due cantanti cubani ignorano l’effigie di John Wayne, stentano a riconoscere le sembianze degli ex Presidenti degli Stati Uniti d'America, e non ricordano i nomi di Ray Charles o Louis Armstrong.
Ancora una volta è fondamentale il rapporto simbiotico tra suoni e figure iconiche che sono scolpite dall’età che avanza inesorabilmente e rese eterne dal clima festoso che accompagna le fasi finali di questo evento e, per molti, della loro vita. Impossibile dimenticare le espressioni di felice solidarietà tra “compagni” di ventura, palesi nei visi di Compay Segundo, Ibrahim Ferrer, Omara Portuondo, Rubén González, Orlando "Cachaíto" López, Amadito Valdés, Manuel "Guajiro" Mirabal, Barbarito Torres, Pío Leyva, Manuel "Puntillita" Licea, Juan de Marcos González. Per loro è indistinguibile la dedizione alle sette note con l’orgoglio patrio e nonostante dolore e disagi economici si ritengono “fortunati” ad appartenere a quella cultura e lo manifestano in ogni gesto e articolazione verbale e vocale.
Dopo ben 25 anni quest’opera, anche grazie ad un prezioso restauro e al ritorno nelle sale promosso dalla Cineteca di Bologna, è invecchiata quanto un eccellente vino (rosso) di una gloriosa annata.