Si apre sulle parole di Fabrizia Ramondino: Capri “l’unico luogo ancora vergine – e che ci attende sempre, ma solo per sfuggirci di nuovo”. Quasi una dichiarazione d’intenti attraverso la voce della scrittrice che accompagnò Mario Martone nel suo esordio, l’indimenticato Morte di un matematico napoletano. Le coordinate di un disincanto nella mappa di un’utopia fallita, alla fine del viaggio nella nascita di una nazione. Il terzo capitolo dopo Noi credevamo (l’epica di un sogno negato) e Il giovane favoloso (alla ricerca di una voce), misura il singolo a contatto col collettivo esplorando un mondo forse mai visto al cinema. A differenza dei precedenti, siamo in una terra davvero vergine, la cui incidenza nel discorso sulla nazione in fieri è tutta da dimostrare in un’operazione rischiosissima.

È il 1914, l’anno prima dell’entrata in guerra dell’Italia, e a Capri la popolazione vive con insofferenza la presenza di una comune di giovani nordeuropei (“siamo tutti di buona famiglia”), guidata da un controverso artista tedesco, che sull’isola ha trovato il luogo ideale per sviluppare la ricerca nella vita e nell’arte. Lucia ha vent’anni, pascola le capre finché i riti del gruppo l’affascinano al punto di abbandonare la famiglia, nonostante il medico locale la spinga ad emanciparsi studiando.

Ispirato all’esperienza della comune caprese del pittore Karl Diefenbach, Capri-Revolution mette nel titolo, accanto al nome dell’isola, un termine titanico. Non allude alla rivoluzione preparata dagli esuli russi, accolti dal medico troppo razionale per dare retta allo spiritualismo degli artisti. Non allude nemmeno alle attività della comune, sempre un po’ sospese tra sperimentalismo utile per fondare qualcosa di meno estemporaneo e pretenziose esotismmi decontestualizzati e piegati alla lettura del leader. Allude piuttosto al percorso di Lucia, in principio schietta e chiusa analfabeta, figlia del popolo e della natura, che coglie nella comune la possibilità di intraprendere un percorso di (ri)nascita personale, la presa di coscienza di un corpo che si pone in opposizione a ciò che pretende il suo mondo di appartenenza, la vocazione alla conoscenza per mezzo dell’ascolto dei sensi.

Nel dare centralità ai corpi nudi che danzano seguendo rituali indiani o coinvolti in sacrifici panici, Martone intercetta l’antica passione per l’avanguardia, mutuando dal teatro una struttura composita che quasi ed imprevedibilmente dialoga con Suspiria nel mettere in scena l’annuncio e il palinsesto di una ricerca espressiva portata a compimento nella Berlino di Guadagnino. Ma è una continuità non lineare, suscitata da discutibili evocazioni epifaniche, che tuttavia determina lo spiazzamento generato da un film complesso e problematico, che alterna momenti di verbosa riflessione sullo stato dell’Europa alle porte del conflitto (gli interventisti, la psicoterapia, l’arte contro la guerra, il ruolo della classe operaia) ad immagini incredibili – su musiche dissonanti – nel definire il legame intimo ed abbacinante dei personaggi con gli spazi dell’isola.

Per chiudere la sua ideale trilogia, Martone ha l’audacia intellettuale di scegliere una storia periferica e forse priva di una vera capacità rappresentativa. Eppure nel suo personale discorso si riallaccia ad una ricognizione sull’arte performativa e sulla speculazione filosofica che pone la parentesi caprese come momento aureo e decisivo per i decenni seguenti. Mentre la guerra sta per cominciare, una capraia si fa epicentro di un coacervo di tensioni determinanti per il progresso dell’intero continente, raggiungendo la massima emancipazione nell’inevitabile finale. Non tutto torna, c’è qualche problema di continuità e non sempre l’allegoria regge, ma meglio questo tuffo nel vuoto che una nuotata all’acqua bassa.