Deve proprio essersi sentito a casa, Sir Christopher Frayling, muovendosi tra i libri e i visitatori della biblioteca Renzo Renzi: lui, massimo esperto del cinema di Sergio Leone, esattamente in mezzo ai manifesti di Per un pugno di dollari e C’era una volta in America (rispettivamente secondo e ultimo film del regista romano), che spiccano sopra gli scaffali della Book Fair nella Cineteca bolognese. Del resto, un ospite della sua caratura non poteva mancare, nel giorno della proiezione in Piazza Maggiore di quello che – assieme a C’era una volta in America – resta impresso come il film più gravido d’epos del cinema leoniano: C’era una volta il West, ovviamente, di cui viene celebrato il 50esimo anniversario. Non si può dire che il baronetto londinese si sia risparmiato, nella giornata di martedì 26 giugno: l’impegno per Frayling è stato triplice, da una lectio magistralis sul lungometraggio in questione all’incontro con Stefano Delli Colli (autore di un fresco ed avvolgente libro dedicato alla carriera del padre Tonino), fino ad arrivare all’introduzione in Piazza Maggiore, prima della proiezione. Lo stesso professore ha onorato l’anniversario dell’uscita del film con un libro – l’ennesimo – su Leone, questa volta incentrato proprio sull’opera del 1968; sfortunatamente, gli appassionati del genere dovranno attendere l’autunno 2018, auspicando in una traduzione in italiano del volume. Ad ogni modo, tra un impegno e l’altro, siamo riusciti a rubare qualche minuto all’autore inglese, ben contento di integrare i contenuti forniti durante la giornata.

Partiamo da una domanda meno scientifica, ma più personale: perché, tra tutti i registi, ha scelto di dedicare quasi tutta la sua vita all’analisi su Sergio Leone?

Dobbiamo partire dal 1967, quando frequentavo il college: erano gli anni delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, di Times they are a-changin’ di Dylan, di Comma 22, dei poster del “Che” Guevara appesi alle pareti. L’atmosfera culturale era di grande trasporto verso la cultura statunitense, ma allo stesso tempo di mal sopportazione verso l’ideologia americana. Mi capitò di vedere Per un pugno di dollari al cinema: non ci potevo credere, era il western che stavo aspettando! Non un film su John Wayne o su James Stewart, non un film che presentasse l’ideologia della società americana: prendeva i personaggi dal genere western, ma allo stesso tempo era cinico, in quanto tutto girava attorno ai soldi, sostanzialmente attorno al capitalismo. Sì, avevo già visto La sfida del samurai di Kurosawa, ma l’atmosfera era molto differente. Basti pensare alla musica, così diversa da quella che compariva nei classici western americani, per nulla sinfonica: la musica di Morricone mi ricordava più i Beach Boys, con quello sfrigolare della Fender Stratocaster, a cui si aggiungevano i cori e i suoni desunti dalla natura. C’era, in quell’atmosfera, qualcosa che mi colpiva profondamente, derivato anche dal set, quella polverosa Almeria! Insomma, era un’esperienza estetica totalmente diversa dai western classici. Ovviamente lo feci vedere ai miei amici, per i quali era solo un western americano venuto male; da quel momento, per me diventò una crociata provare a convincere chiunque a vedere e apprezzare Sergio Leone.

Poi vidi il suo secondo film, il terzo (Il buono, il brutto e il cattivo) e infine incontrai Sergio: lì realizzai il concetto che Tarantino stesso mi disse in un’intervista, cioè che con Leone inizia il cinema moderno. Se oggi mostri ai giovani studenti americani i film di John Ford, non rintracciano nessun punto di contatto con la modernità; con i film di Leone, è il contrario. Troviamo l’eroe moderno, che non fa più crociate in nome di qualche valore morale: non tanto come James Bond, che – malgrado tutto – comunque lavora per la Corona e in qualche modo possiede un sostrato morale, ma più come il cacciatore di taglie Han Solo. Ovviamente va sottolineato lo stile: il suo cinema non tratta del mondo reale, delle strade, ma si configura come una rete di rimandi ad altri film. Per non parlare dell’uso della musica: come Tarantino, anche Leone sceglieva i temi musicali prima di girare il film. E infatti Tarantino, neanche a dirlo, lo omaggia usando i temi di Morricone in The Hateful Eight.

Insomma, possiamo parlare dei film di Leone come di oggetti postmoderni prima del postmoderno, perlomeno per alcuni tratti?

Sì, assolutamente. La cosa buffa è che Leone voleva raccontare la verità sul West: lui credeva nella grande narrativa del West. Invece il postmoderno prevede la fine delle grandi narrazioni, paradossalmente. Ho già accennato allo stile e alla musica, potremmo parlare anche dell’approccio usato nelle scene d’azione, con la dilatazione o l’accelerazione del tempo. Anche il design del set diventa un tratto caratteristico del personaggio: prima che ognuno inizi a parlare, sai già tutto di lui, perché lo desumi dall’ambiente che lo circonda. Ritorno un attimo sulla questione della modernità: il suo distacco da ogni sostrato morale nasce anche dalla passione di Leone per le fiabe e dal suo disgusto verso l’ideologia. E quindi lui riprende i western, senza però riallacciarli alla cultura americana. Così come oggi noi possiamo amare la pop music americana e allo stesso tempo detestare Trump e l’ideologia che si porta dietro. Come la pop-art, che trae l’immagine senza accoglierne l’ideologia sottesa.

La sua produzione su Leone è sterminata: in ordine cronologico, il suo ultimo è stato Once upon a time in Italy. Qual è stato il cambio di prospettiva e di focus, se c’è stato, nel trattare la figura di Leone da un libro all’altro?

Beh, chiaramente i committenti americani volevano qualcosa sull’eredità di Leone in America e sull’impatto dei suoi film, sugli effetti sul cinema americano. In Italia, la situazione è diversa: come ho detto all’inizio della lezione, ho dovuto convincere molti studiosi e critici italiani a prenderlo seriamente, a considerare Leone come un contributo alla cultura italiana. Purtroppo, anche ora ci sono persone che pensano che per essere un grande regista italiano si debba fare riferimento a Bertolucci, Antonioni, al neorealismo e a un certo tipo di ambientazione. Oppure essere un poeta, come Pasolini o Visconti. Ma io ho provato a spiegar loro che la maggior parte dei registi americani lavorano sul cinema di genere, perché questo è il modo in cui gli studios lavorano: e cosa ci sarebbe di male? È per caso un regista secondario John Ford, che ha girato Sentieri Selvaggi, o Nicholas Ray, per aver fatto Johnny Guitar? È ciò che crei all’interno del genere che ti rende importante o meno. Ad ogni modo, per C’era una volta il West ho cercato tutto quello che si potesse trovare. Sono andato a Roma in un archivio, dove ho trovato il calendario delle riprese, con i programmi giornalieri; poi ho reperito il soggetto scritto insieme a Bertolucci e Dario Argento. Inoltre, ho intervistato tutti i sopravvissuti: Sergio Donati, Giancarlo Santi, Mickey Knox, Ennio Morricone, Claudio Mancini. La cosa interessante e divertente è che tutti contraddicono tutti, nelle interviste. Sai cosa mi ha colpito? Ho chiesto a Charles Bronson cosa ne pensasse e mi ha risposto: “Non ho mai visto il film”. È incredibile! È il suo miglior film e non l’ha neppure visto!

A proposito di Once upon a time in the West, il libro uscirà questo autunno: ci può anticipare più nel dettaglio come sarà la sua struttura?

Posso anticipare che sarà aperto da un’introduzione di Quentin Tarantino, basata su una lunga intervista che gli ho fatto in gennaio a proposito di Sergio; poi ho inserito una mia introduzione, la sezione delle interviste e quella dei documenti. Oltre a quelli già citati, troverete i disegni di Claudio Simi, lo scenografo: per fortuna sono riuscito a convincere la famiglia a concedermeli, perché sono davvero spettacolari. Molto materiale deriva dall’archivio Angelo Novi, custodito presso la Cineteca di Bologna: parliamo di circa 300 foto scattate sul set durante la lavorazione, molte delle quali inedite. Infine, ci saranno vari contributi scritti di Scorsese, Carpenter, Joe Dante, John Milius, tutti riferiti al film in questione. Lo sapevi che Carpenter per il matrimonio ha voluto come sottofondo musicale la colonna sonora di C’era una volta il West? Sì, mi piace mescolare la parte analitica ad una un po’ più aneddotica.

Durante la lezione ha ricostruito le citazioni contenute all’interno dei primi 20 minuti del film, che costituiscono forse la parte più interessante della pellicola. Immagino che nel libro non ci si fermi al ventesimo minuto…

Chiaramente, c’è anche una sezione in cui vengono riportate le citazioni dai western americani e ne ho controllato personalmente la veridicità con Argento, Sergio (quando era ancora vivo) e Bertolucci, togliendo le citazioni che avevo colto io, ma che derivavano da film che loro non conoscevano. In tutto, parliamo di 40 citazioni esplicite, alcune prese da film abbastanza rari, che onestamente non conoscevo. Ad esempio, il nome Cheyenne (parliamo del personaggio interpretato da Jason Robards) è stato ispirato da Desperados di Glenn Ford, del 1943: non proprio un film di primo livello.

La ringraziamo per le anticipazioni che ci ha offerto nella cornice del Cinema Ritrovato. Non è certo la prima volta che vi partecipa…

Ci sono stato due volte: nel 2014 introdussi la proiezione del restauro di Per un pugno di dollari. Poi venni non da ospite, ma da appassionato, nel 2015. Ci sono stati dei cambiamenti negli anni: adesso abbiamo la possibilità di vedere film più recenti, anche più commerciali, o in Technicolor. Per non parlare degli spazi: una volta era limitato solo al Lumière, ora si è totalmente espanso all’interno della città. Mi piace molto venirci, perché amo questo ambiente.