Come altri europei emigrati ad Hollywood, da Ernst Lubitsch a Billy Wilder, Otto Preminger è un regista spudorato. Specialmente negli anni Cinquanta, apogeo della sua carriera forse perché coincidente con il lento e progressivo tramonto del cinema classico, che contribuì a sabotare con splendido cinismo, Preminger si divertì a ripensare il corpo femminile, modernizzandone la visione (la Carmen Jones di Dortothy Dandridge), costruendo ambiguità (Gene Tierney in Sui marciapiedi), giocando con il miscasting (Linda Darnell in La penna rossa) o con il comune senso del pudore (Maggie McNamara come Vergine sotto il letto) fino a sdoppiarlo in due alterità (Kim Novak e Eleanor Parker ne L’uomo dal braccio d’oro).

Non dovrebbe fare eccezione Marilyn Monroe, eroina sfuggente e morbida de La magnifica preda: eppure, considerata la cattiva opinione che attrice e regista avevano del film, sembra quasi emergere il mancato feeling fra i due, l’una un po’ smarrita nella dimensione western non proprio adatta alla sua iconografia metropolitana e l’altro abbastanza seccato dal non possedere l’autorità totale sul proprio lavoro. Fra i due litiganti, si potrebbe dire che sia il terzo a godere: e cioè Robert Mitchum, totalmente a suo agio nei panni di un uomo con troppo passato e desideroso di altrettanto futuro. Padre ritrovato di un bimbo affascinato dalla cantante Marilyn, mentre tutti danno la caccia all’oro si reinventa contadino tra i monti del Canada, dove è però osteggiato dagli indiani.

Con quello sguardo incapace di stupirsi di fronte alle bizzarrie del mondo, Mitchum attraversa il film con il passo sicuro del predestinato ad un finale riscatto per contrappasso, eroe non più solitario perché ricongiunto con il figlioletto perduto, dotato di improvvisi istinti animaleschi e di un vasto repertorio di proverbi popolari. Dopo un incipit parzialmente in interni, dedicato alle esibizioni canore che hanno il plausibile compito di allungare il metraggio altrimenti troppo rapido, il film resta pressoché sempre en plein air, galvanizzato da un limpido e meraviglioso Cinemascope, altro movente dell’operazione.

Con un titolo che più evocativo non si può, il film, divertente e coinvolgente, contiene al suo interno almeno tre sotto-film: l’avventura fondata su fughe e rincorse, con il corso del fiume a comunicare gli impedimenti per raggiungere i personali ori; il racconto di formazione del bambino, simboleggiato dal rapporto col fucile e con ciò che esso rappresenta nel suo legame col padre; e soprattutto il selvaggio e frenato discorso amoroso tra Marilyn e Mitchum, sancito da un momento di clamoroso erotismo (osservare la faccia di lei quando lui le massaggia le gambe infreddolite).