In sala per il penultimo giorno di festival, restaurato nell'originale formato 35 mm, La più grande avventura (1939) di John Ford offre l'occasione di riscoprire un classico interpretato da fedelissimi (Henry Fonda, Ward Bond, John Carradine) e con un ruolo tutto particolare nel percorso del regista; si inscrive – in maniera problematica - tra i Ford animati dal mito di fondazione della civiltà americana; film come questo o La carovana dei Mormoni sono storie non di sceriffi e banditi ma di Terre Promesse, non di duelli ma di campi dissodati, nascite, danze gioiose e sfrenate come riti pagani della fertilità. L'unione fra Gill (uno straordinario Fonda) e Dana (Claudette Colbert) ha valore di "fecondazione universale" alla Whitman, dal matrimonio al finale in cui la bandiera dei neonati Stati Uniti sventola sulla torretta del forte.
La più grande avventurasi segnala non a caso come l'unico film di Ford ambientato nella guerra d'indipendenza. Raccontare i primi vagiti del mito significa confrontarsi con una pagina di storia controversa; con il sangue cristiano versato su entrambi i fronti; con la disperata e consapevole scelta di parte degli indiani (checchè se ne dica Ford li aveva in grande simpatia), da dipingere necessariamente come nemici senza volto; si viaggia quindi su due diversi binari, non dicotomicamente paralleli - la coerenza del messaggio di speranza non è di fatto intaccata - ma uno come sepolto nel cuore dell'altro.
I due protagonisti non sono toccati allo stesso modo dalla loro “grande avventura”: la fragile Dana rivela un po' alla volta la tempra di tante donne fordiane, e uno spirito perfettamente concorde con quello preponderante nel film; d'altro canto i pionieri americani sono assimilati a bambini (bellissima la scena in cui due o tre bimbi seguono il codazzo degli uomini che marciano pavoneggiandosi davanti alle signore, a loro volta accompagnate da altrettante "piccole donne") irretiti in un bel sogno da cui Gill/Fonda sembra più di una volta scuotersi: quando non trova la fede nuziale al momento del fatidico sì; quando biascica un allucinato monologo dopo essere scampato per miracolo alla morte in battaglia; quando la gioia per la nascita del figlio sembra un peso insopportabile ("mai più, Dana..").
A sfumare ulteriormente i toni contribuisce - nel primo film a colori di Ford – il simbolo continuamente reiterato del fuoco: può essere il primo passo verso la civiltà, la luce della ragione contro l'istinto bestiale, il furore giovanile di un popolo destinato alla grandezza; e allora illumina la casa, scoppietta nei falò all'aperto e guizza al buio nella lanterna; ma può anche consumare la casa che riscaldava, devastare i raccolti, punire i prigionieri (Michael Mann prende nota per L'ultimo dei Mohicani). Lo stesso per certe sue figure vicarie, fra il senso di tepore che comunica il mais accatastato nel camino e il giallo febbricitante delle pareti nella scena dell'amputazione della gamba del generale. Quando Gill corre verso la salvezza inseguito da tre guerrieri Mohawk, il cielo intero prende fuoco in una sintesi di queste sensazioni, positive e negative.
Siamo ancora lontani dal ripensamento di western crepuscolari come L'uomo che uccise Liberty Valance ma viene da chiedersi se Ford – che poco dopo perse un occhio filmando in prima linea un'altra brutta guerra americana – rabbrividisse della sua stessa ironia rivedendo il collaborazionista con la benda di Carradine, guercio “perchè aveva visto qualcosa che non doveva vedere”, e l'indiano Blue Back sogghignare indossandola nel finale.