Si è detto e forse si dirà che si tratta di un Bergman minore, quello che nello stesso anno di Ciò non accadrebbe qui si occupò di due adattamenti teatrali Rachele e il fattorino del cinema e Uscirsene a mani vuote. Un film insolito per l’autore svedese che a distanza di anni continua a interrogarci. “Ci sono alcuni film di cui mi vergogno o che, per motivi diversi, non mi piacciono. Ciò non accadrebbe qui è il primo.” Bergman commenta così il suo nono lungometraggio prodotto nel 1950 dalla Svensk Film Industri, aggiungendo che solo dopo quattro giorni ebbe letteralmente una paralisi creativa. L’ebbe proprio scontrandosi con la realtà dei fatti che avrebbe messo in scena, incontrando sul set alcuni attori baltici in esilio per motivi politici.

“Si chiama Liquidatzia, ma in svedese si legge Unione Sovietica”. Questa frase di Peter Von Bagh descrive al meglio il sottotesto dell’opera e spiegherebbe anche le ragioni che hanno spinto la stampa a bollarla come “il film anticomunista di Bergman”. Una Stoccolma dall’estetica espressionista è il teatro delle vicende in cui è ambientato il thriller a tinte noir in piena guerra fredda. Vera (Signe Hasso), rifugiata politica, accetta il compromesso di sposare l’agente Atkä Natas (Ulf Palme), nel tentativo di salvare i propri genitori in fuga verso la Svezia. Egli però, per non destare sospetti e mantenere sicura la sua copertura, decide di consegnare i cognati alle autorità. Con un’iniezione Vera tenterà di ucciderlo, inscenandone la morte per malore, impresa che non le riuscirà, trovandosi più tardi a fare i conti col marito ancora in vita. L’intreccio si colora con un ulteriore elemento sentimentale: Vera ha un amante, un altro agente, Almkvist (Alf Kjellin), il quale non si darà pace fin quando non la saprà finalmente salva.

Eppure, nonostante il debole intreccio e la banale risoluzione hollywoodiana, anche da una superficiale visione e una parziale conoscenza della filmografia di Bergman si possono scorgere già i tratti distintivi della sua autorialità. La canzone con echi premonitori intonata dal dottore ubriaco mentre Vera tenta l’uxoricidio, i dialoghi coniugali attraverso gli specchi, i silenzi, ma ancor più le ombre giocano un ruolo importante, forse ancor più importante dei personaggi stessi.

E la firma di Bergman sembra essere evidente in altre due scene. La prima – che ha un suo doppio all’interno del film – è quella del cadavere di Atkä Natas, portato via in una carrozzina per infanti: una sequenza colma di simboli (dalla culla alla morte, il tempo e gli orologi) che ritorneranno nelle sue opere successive. Il suo doppio è in una sequenza successiva, dove una bambina, trascinando un passeggino, si scontra con un agente in preda ad un inseguimento, per poi riprendere a spingere la carrozzina: anticipazione del fatto che Atkä Natas è ancora vivo.

La seconda è quella dell’incontro segreto nel cinema, che si svolge durante la proiezione di un classico Disney con Donald Duck. Anche qui il rumore, i suoni e il silenzio hanno il ruolo principale. I film mezzi di comunicazione coprono ciò che dovrebbe rimanere nascosto per tutta la durata del film: il cinema la riunione segreta, la radio i pestaggi.

Bergman, come sappiamo, è maestro nel costruire saldamente le sue narrazioni sopra le voragini del dubbio. E poi incalzare in maniera sempre più pressante lo spettatore ad affacciarsi, su quelle voragini, e a interrogarle finché non riesce a scorgere una luce. In questi aspetti è facile rivedere il Bergman noto a tutti, il Bergman riconosciuto da se stesso soprattutto. Quello che successivamente spingerà oltre i limiti del consentito dal suo tempo l’indagine sulle pulsioni e la sensualità in Monica e il desiderio, che sarà scrupoloso nella dissertazione escatologica sempre a cavallo tra la vitalità e la morte del Settimo sigillo.

Ma sono diversi gli elementi di rottura e distacco tra Ciò non accadrebbe qui e il resto dell’universo bergmaniano. A partire dal genere: si tratta dell’unica spy story di tutta la sua filmografia. In alcuni particolari sembra emergere la poca dimestichezza col noir: per esempio, il MacGuffin riconoscibile nell’oggetto della valigetta dà linfa a una parte consistente dell’intreccio, ma appare qualche volta di troppo fino a risultare pleonastica nell’economia del racconto. La narrazione prende l’avvio in medias res, ma la trama ha un inizio e una fine perfettamente nitidi. Il finale soprattutto risulta inconsueto per la chiusura perfetta che conferisce alla storia. Perfetta quanto la forma circolare del salvagente che appare nell’ultima scena, e nel centro esatto di questo la telecamera riprende l’auto della polizia in cui Vera e Almkvist si allontanano. Finalmente salvi e liberi di coronare il loro sogno d’amore.


Stilisticamente scompaiono quasi totalmente i primi piani dei volti, lo spazio concesso dalle inquadrature resta abbastanza angusto, ma il campo è oggettivamente più largo della norma per Bergman. Una modalità che si accompagna bene ai ragionamenti ad ampio raggio snocciolati dal film, dal ritratto della società alla contestazione politica. Ma che – soffermandosi meno sugli sguardi e sulla mimica facciale – relega a un ruolo di marginalità le tribolazioni dell’animo umano e il peso della spiritualità.

Difficilmente riusciremmo a risalire alle ragioni che hanno spinto il regista svedese a maledire Ciò non accadrebbe qui. Non si tratta di un unicum nella storia del cinema: fino all’ultimo Stanley Kubrick ha chiesto di non inserire Fear and Desire nelle retrospettive a lui dedicate. E la storia dell’arte in generale non è da meno. Basti pensare a tutte le opere cancellate da Michelangelo o quelle strappate da Leonardo, oppure a Torquato Tasso che non ha mai accettato l’ultima versione della Gerusalemme Liberata perché aveva fatto delle revisioni del poema una vera e propria ossessione.

Da spettatori non possiamo che considerare la proiezione dell’opera maledetta da Bergman un’occasione per conoscere meglio i suoi strumenti nell’indagine del reale e sull’umanità. Un’indagine sempre illuminante, come si evince dalla citazione tratta dal film, in cui si parla della gente di Liquidatzia: “Gli abitanti di questo paese sono dei gitanti della domenica. Sono intelligenti, ma non capiscono niente. Con un po’ di sano scetticismo diranno: Queste cose qui non succedono.”

Orazio Francesco Lella
Kabir Yusuf Abukar