L’attenzione per la sessualità e la rappresentazione scritta e filmata del corpo hanno sempre assunto un tasso di densità più che significativo nelle opere di Pasolini. C’è la ricerca nei mondi antichi dei film della Trilogia di tracce di vitalità e corporeità; c’è Salò, sconfessione della Trilogia, i cui film non possono però essere slegati dal loro confluire verso l’ultimo; ci sono gli Scritti corsari e l’identificazione della nuova forma del Potere e Petrolio, che contiene l'analisi del Nuovo Potere dalle origini, gli anni Sessanta, al presente, gli anni Settanta, filtrata attraverso la vicenda di un uomo che vive sulla propria pelle una modificazione legata alla sessualità: un percorso di transizione, diremmo oggi. E la poesia. Poesia come elaborazione della vita giovanile nel ricordo – vengono in mente le poesie legate a Casarsa scritte in friulano – e la poesia come disamina politica e sociologica in versi, se pensiamo a Le ceneri di Gramsci. Ma potremmo elencarle davvero tutte: opere permeate dalla volontà di non nascondere più niente, che vogliono portare alla luce ciò che resta taciuto, fantasie indicibili, perversioni e l’osceno.

Comizi d’amore viene girato nel 1964 e rivederlo oggi crea uno strano effetto. Certo oggi chiunque può armarsi di videocamera e microfono e girare per spiagge, lidi, città, università interrogando giovani e adulti su questioni quali identità, normalità\anormalità e divorzio. Ma negli anni della cosiddetta mutazione antropologica quest’inchiesta aveva un’importanza oltre che politica diremmo quasi esistenziale: fondamentale perché compiuta in un momento storico spartiacque, dopo il quale nulla sarebbe stato come era prima. Pasolini diceva che agli inizi di questa crisi i corpi innocenti venivano visti come l'ultimo baluardo di realtà, concetto che va letto in opposizione a quello di irrealtà, incarnato dalla cultura di massa e dai mass media. Ora invece anche la realtà di questi corpi puri è stata manomessa dal potere consumistico.

In Comizi d’amore c’è ancora questa specie di distanza ontologica tra i corpi e le parole del sottoproletariato - la voce narrante del documentario definisce gli abitanti delle Sicilia, ad esempio, fermi e decisi sulle loro opinioni, seppure retrograde o allarmanti – e della media borghesia milanese, ad esempio. Ma ancora più allarmante sarà stato confrontarsi con questa borghesia ipocrita e conformista: il ragazzo nella sala da ballo che si sente superiore (sessualmente e intellettualmente) agli altri perché ha studiato “e loro no”; la studente universitaria che si sente emancipata; o la stessa Oriana Fallaci che senza remore asserisce che la società di quel tempo era assolutamente matriarcale, devota alla donna e ai suoi bisogni e che tutte le donne potevano sentirsi libere di vivere la propria sessualità.

Mettendoci per un attimo nei panni dell’autore, sarebbe interessante chiedersi che senso avrebbe fare un’inchiesta del genere oggi, perfino con le medesime domande, al tempo della fluidità di genere, della (falsa) tolleranza per l’“anormale”, l’invertito, come si etichettavano gli omosessuali negli anni Sessanta. E in questo senso l’intervista a Ungaretti resta senz’altro il momento più alto di tutto il film. “Ogni uomo è fatto in un modo diverso”, diceva il poeta, “nella sua struttura fisica è fatto in un modo diverso. È fatto in un modo diverso anche nella sua combinazione spirituale. Tutti gli uomini sono a loro modo anormali, in contrasto con la natura. E questo sino dal primo momento, con l’atto di civiltà che è un atto di prepotenza umana sulla natura, che è un atto contro natura”. Parole che risuonavano fortissime in quegli anni e che probabilmente farebbero tremare anche oggi.