Il primo film di Michelangelo Antonioni non è solo la Cronaca di un amore, ma anche la cronaca di un autore. Il primo lungometraggio del regista mostra infatti già la tendenza autoriale nel considerare il regista come la principale forza creativa dietro l’opera cinematografica e la spinta all’innovazione tematica e formale che caratterizza tutte le diverse fasi dell’opera di Antonioni. Di Cronaca di un amore, infatti, Antonioni è anche autore del soggetto, mutuato dalla tradizione hard-boiled americana, James M. Cain in particolare, e dal caso giudiziario della Contessa Maria Pia Bellentani che uccise nel 1948 l’amante Carlo Sacchi. È, inoltre, co-autore della sceneggiatura, riscrive i movimenti della macchina da presa per innovare il linguaggio cinematografico, dirige gli attori, specialmente Lucia Bosè, con pugno di ferro, impiegando, nella sua stessa definizione “mezzi . . . meccanici e odiosi”; partecipa attentamente e scrupolosamente al montaggio. Secondo la testimonianza dell’aiuto regista Francesco Maselli, inoltre, Antonioni vorrebbe pianificare anche la promozione del film, amareggiato dal rifiuto della Mostra di Venezia e umiliato dalla decisione di una proiezione informale al Lido.
Incaricato da Enrico Fontana, ricco industriale milanese, di indagare sul passato della bella moglie Paola Molon (Lucia Bosè), l’investigatore privato Carloni ricostruisce, tra le strade trafficate di Milano e i palazzi ferraresi dell’adolescenza di Paola, la passione della donna per Guido Garroni (Massimo Girotti). L’indagine dell’investigatore per la morte, mai chiarita pienamente, di Giovanna, fidanzata di Guido e amica di Paola, farà riavvicinare i due ex amanti, che ora progettano di uccidere Fontana. A differenza dei precedenti letterari e cinematografici, da Ossessione (1943) di Visconti a Il postino suona sempre due volte (1946) di Garnett, Antonioni sposta il triangolo dalla povera provincia rurale all’alta borghesia urbana, con la minuziosa osservazione di luoghi e convenzioni sociali della “Milano bene” di quegli anni. Luoghi e convenzioni dove le donne come Paola sono esibite come proprietà dei mariti agli eventi mondani. “Non sopporto quel suo sguardo da padrone”, confida Paola a Guido, affermando la sua voglia di indipendenza e il suo diritto di definire la sua identità e immagine. Questo desiderio ha anche una dimensione meta-cinematografica in quanto il marito che Paola vuole uccidere è interpretato da Ferdinando Sarmi, stilista e ideatore nel film “dei vestiti della signora Bosè”. Come Clara Manni nel successivo La signora senza camelie (1953), Paola Molon illustra la dialettica tra oggetto del desiderio e auto-determinazione narrativa del corpo della diva Lucia Bosè.
Le soluzioni formali sono tanto moderne e innovative quanto gli elementi narrativi. In un’intervista con Michele Gandin apparsa su “Il Progresso d’Italia” nel dicembre del 1950, Antonioni dichiara di voler “rompere con una certa sintassi . . . ormai superata e stanca”, oltrepassando quel “giuoco dei campi e controcampi” che gli era divenuto da tempo insopportabile. Il regista se ne libera attraverso “lunghissimi movimenti di gru”. Come l’investigatore privato e il senso di colpa, la macchina da presa insegue i personaggi staccando pochissimo. La scena sul ponte, catturata in un piano sequenza di quasi 180 metri che mostra Paola e Guido pianificare l’omicidio di Fontana, racchiude i due amanti in un cerchio formale e narrativo che ne prefigura il destino di infelicità e separazione. Il movimento circolare della macchina da presa, che imprigiona i due protagonisti in un senso di colpa opprimente e senza possibilità di uscita, sostiene formalmente l’evocazione dell’oscuro evento accaduto a Ferrara anni prima e anticipa la separazione dei due amanti, richiamando la stessa condizione seguita alla morte di Giovanna.