Il finale è talmente iconico che persino I Simpson se ne sono appropriati per una loro puntata, in cui Marge in fuga in macchina con un’amica si getta sì nel Grand Canyon, ma plana a sorpresa su una colonna di altre vetture epigoni lì ammucchiate, senza sfracellarsi affatto come le Thelma e Louise originali al termine del loro volo liberatorio. Ché poi, in realtà, Ridley Scott e Callie Khouri mica ci fanno vedere la fine di quel volo: in Thelma & Louise, l’epico fermo immagine che immortala le due protagoniste in pieno salto nel vuoto è tutt’altro che fatale.

Correva l’anno 1991, il “buddy movie” era sempre stato rigorosamente maschio e le coppie di fuorilegge on the road del cinema erano composte al massimo da fidanzato e fidanzata, quasi sempre da amico e amico. La sceneggiatrice Callie Khouri, all’epoca trentaquattrenne, pensò bene di ribaltare due topoi in una volta, portò a casa l’Oscar e delineò un modello che da trent’anni è pura attitudine, modo di dire e fare.

La messa in scena fu affidata all’inglese Ridley Scott, al settimo film e già regista a comprovato agio sia con eroine femminili (Alien) sia con macchine che volano (Blade Runner). Per i personaggi centrali mostrarono interesse Meryl Streep e Goldie Hawn, Scott pensò a Michelle Pfeiffer e Jodie Foster, ma la spuntarono Susan Sarandon -reduce da un decennio di ruoli poco significativi, fra cui quello in Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony Scott, fratello di Ridley- e Geena Davis, vincitrice dell’Oscar come miglior attrice non protagonista due anni prima con Turista per caso.

Ma cosa combinano Thelma e Louise per ritrovarsi ad issare nel Grand Canyon la bandiera di vendicatrici di un intero retaggio maschilista di obblighi, mitezza e repressione? A ben vedere, reagiscono: nient’altro. Partono insieme, loro due sole, sulla Thunderbird decappottabile di Louise per un fine settimana in montagna, lasciandosi ciascuna dietro una diversa crisi con i rispettivi compagni -il tenebroso Jimmy per Louise (Sarandon), il caricaturale marito per Thelma (Davis)-, così poco presenti alle loro donne da non saperle nemmeno prossime alla partenza.

Affrontano l’una una violenza sessuale e l’altra l’opportunità di vendicare con l’omicidio quella appena subìta dall’amica e la propria, avvenuta anni prima. Ricercate, decidono di scappare in Messico; incrociano un giovane ladro di rara avvenenza (Brad Pitt, al primo ruolo importante) che insegna a Thelma l’arte di rubare e le deruba; rubano a loro volta. Fanno saltare in aria il mezzo di un volgare camionista e gli prendono il cappellino da baseball; chiudono nel bagagliaio della sua macchina un poliziotto che le ha fermate nella Monument Valley e gli prendono gli occhiali da sole; infine seminano la polizia in un polverosissimo inseguimento in pieno far-west, finché non trovano che il vuoto a dar loro una via d’uscita.

È un film di riscatto femminile un film così? Pensiamo di sì, e non solo per contenuti e trama. Di certo apertura, svolgimento e risoluzione hanno luogo in un mondo di maschilismo sedimentato ed immutabile, pronto a punire anche solo il desiderio di due donne di mettersi per strada da sole. A chi trovasse la cosa poco aggiornata rispondono come minimo #NoViajabaSola, movimento del 2018 cugino di #nonunadimeno, e al cinema il recente Wild di Jean-Marc Vallée (2014). Quest’ultimo, poi, rivisita con intenti simili a quelli di Khouri & Scott la galleria di uomini che sfilano in Thelma & Louise. Si è detto del marito di Thelma, Darryl, ottusamente ignaro delle esigenze minime di una moglie, e del rozzo camionista che molesta a gesti e sconcezze verbali le due donne.

Ritratti di uomini inetti, messi alla berlina con toni volutamente sopra le righe, e compensati dalla maggiore complessità accordata a Jimmy e J.D. (Pitt) nell’arco della notte passata ciascuno con una delle due donne, in camere adiacenti dello stesso motel. L’uno il fascinoso compagno di Louise, fuori tempo massimo nel mostrare gli attributi, ma attento a passarsi il pollice sulle labbra dopo il lungo bacio d’addio alla ex, alla maniera di Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro.

L’altro il mascalzone che regala a Thelma un indimenticabile incontro sessuale e lo mima poi a Darryl nella stazione di polizia in cui i due si incrociano, per deriderlo e fare giustizia del pessimo sesso che ha sempre passato alla moglie nel letto di casa. Il quadro è infine compiuto dal poliziotto interpretato da Harvey Keitel, alle calcagna delle due fuggitive, ma diversamente dai colleghi interessato alle loro storie e alle loro vite, ed unico a fiutarne motivazioni e risolutive intenzioni.

In lui non è ardito scorgere lo stesso Ridley Scott, che firma probabilmente il suo film migliore, e un capolavoro. Un film femminista non solo perché scoperchia senza indugi la questione maschile, ma perché eleva due donne come tante ad eroine senza tempo, irriducibili nel portare alle estreme conseguenze il bisogno di una libertà sconosciuta e perfetta. Le staglia magnifiche sui paesaggi del deserto dello Utah e dell’Arizona, restituisce i brividi che le percorrono nella dimensione unica del viaggio e dell’autonomia, e in quelli convulsi della fuga dalla polizia, in cui si esalta saccheggiando il Terrence Malick di La rabbia giovane. Le osserva e le ascolta parlare di sé nel silenzio della notte del deserto, in cui le sole luci visibili sono quelle della macchina su cui macinano miglia verso il mitico confine messicano, che non raggiungeranno mai.

Cosa si dicono? Questo.

Thelma: “You awake?”

Louise: “Guess you could call it that, my eyes are open”

Thelma: “I’m awake too. I feel awake”

Louise: “Good”

Thelma: “I feel really awake. I don’t recall ever feeling this awake. You know? Everything looks different now. You feel like that? You feel like you got something to live for now?”