Continuano, e si allargano a tutte le sale italiane, le proiezioni di Manhattan restaurato. Il capolavoro di Woody Allen non solo riguadagna il grande schermo dove le luci di Gordon Willis e le note di George Gershwin possono esaltarsi al meglio, ma ci riporta anche le tante cose scritte sul film da studiosi e critici.
A Manhattan, Tracy ama Ike che ama Mary che ama Yale che è sposato con Emily ma ama anche Mary. Tracy, la diciassettenne spontanea, sognante e un po’ lenta, fa il liceo, mentre tutti gli altri, ultratrentenni e quarantenni, comunque “appartenenti ad un altro evo di idee”, fanno di mestiere gli intellettuali. Tutti, in questo film, scrivono libri (Jill, l’ex moglie di Ike, che lo ha piantato per andare a vivere con un’altra donna e sta scrivendo un libro sul loro matrimonio), si propongono di scrivere libri (Yale, che da sempre deve finire un libro su O’Neil), tentano di scrivere libri (Ike, che abbandona esasperato il proprio lavoro di autore televisivo per scrivere un libro su New York), temono di non saper scrivere libri (Mary).
È un film dove la dinamica che regola il gioco delle coppie è indissolubilmente legata allo stato ‘culturale’ dei protagonisti, dove l’impotenza creativa che investe la vita pubblica dei personaggi si riflette puntualmente sulla loro vita privata. Sarebbe riduttivo infatti considerare Manhattan un semplice film d’amore (o di amori), come sarebbe riduttivo considerarlo solo una caustica presa in giro delle idiosincrasie e delle mistificazioni dell’intellighentia new-yorkese. Tutto organizzato sui ritmi e i tratti della sophisticated comedy anni Trenta (ma senza dimenticare i tempi meditativi e monologanti tipici di Allen), punteggiato di battute che a questa più o meno esplicitamente rimandano […], Manhattan è in realtà un film amaramente rassegnato; è la calibrata, feroce e autocritica descrizione dello stato esistenziale e dello ‘stile’ di vita che caratterizza una generazione insoddisfatta, la quale, viva essa nel cuore o alla periferia dell’impero, si caratterizza per la generalizzata incapacità a programmare secondo un “senso” definito la propria vita. Non è un caso, infatti, che il concetto che ricorre più frequentemente nel film sia quello del ‘mettere ordine nella propria vita’, volontaristico, programmatico e sempre puntualmente disatteso, non solo per pigrizia e malafede, ma soprattutto per l’impossibilità a tradurre in azione la confusione e le tensioni interiori. Il gioco delle coppie così viene semplicemente a costituire la traccia narrativa portante del racconto interiore di tante solitudini ingarbugliate e tra loro perfettamente simili, dove nevrosi, ansie creative non realizzate, fraintendimenti etici, incomunicabilità, frustrazioni, mass-media, psicanalisi, miti culturali la fanno da padroni. Un film pieno, quindi, dei temi che Allen è andato sviluppando con sempre maggior precisione lungo l’arco di tutto il suo lavoro di sceneggiatore, comico e regista, temi che trovano qui un’espressione particolarmente puntuale, una sintesi interna esemplarmente armonica.
(Emanuela Martini, “Cineforum”, n. 191, 1980)
Quel che c’è di più autentico, in Manhattan, è la sua fantasia. La New York che in Io e Annie Woody aveva difeso fino a diventare tedioso era in crisi. Così ne immaginò una versione migliorata. Di più: ridisegnò la città scintillante che aveva visto da bambino nei cinema di Coney Island, liberando visioni che sentiva prigioniere degli schermi del passato. In un certo senso, Manhattan è la personale Rosa purpurea del Cairo di Allen – è il film nel quale Woody proietta felicemente se stesso in una finzione hollywoodiana. È la sua versione di un musical con Fred e Ginger, è romantico come Casablanca, rifulge delle mille luci della metropoli come Piombo rovente. Ed è allo stesso tempo una celebrazione dell’attimo fuggente, non meno fantasmatica di un’attualità Lumière.
L’ultima inquadratura di Manhattan, che chiude il dialogo tra Isaac e Tracy poco prima che lei parta per Londra, è stata paragonata al miracolo dell’agnizione nell’ultima immagine di Luci della città. Personalmente non la vedo così; non mi sembra affatto un finale aperto. Non c’è dubbio che qualcosa è finito. La giovinezza svanisce. L’amore non dura. Tutti non cerchiamo altro che far rivivere un passato perduto. Solo lo skyline rimane. I successivi tentativi di Allen di ricatturare Manhattan sono stati spesso imbarazzanti, ma (noi e lui) avremo sempre Manhattan.
(J. Hoberman, “Village Voice”, 3 luglio 2000)
Il tessuto narrativo immaginato da Allen ha i caratteri della ronde e il gusto degli equivoci di Marivaux; ma scopre la sua progettata pretestuosità nel momento in cui a ogni inquadratura la macchina da presa abbandona volentieri i suoi personaggi per soffermarsi sui dettagli e sugli sfondi, quasi a comporre un’emozione fatta di suggestioni sonore e visive che vengono prima e resistono ad oltranza rispetto alle avventure sentimentali degli uomini e delle donne di Manhattan. La sceneggiatura si dipana su stereotipi perseguiti con sottile ironia, fin dallo scambio di situazioni rispetto a film precedenti (Play It Again, Sam ‒ Provaci ancora, Sam, Herbert Ross 1972, Annie Hall ‒ Io e Annie, 1977) cui prestavano volto i medesimi attori. In questo costante sfuggire all’attesa pur confermandone in modo complice i presupposti (il protagonista nevrotico, la futilità del tradimento, il complesso edipico, lo scambio delle coppie e via citando), Allen ci conduce per mano in un territorio vergine. Sicché, come spesso si è detto, a trionfare è un personaggio inatteso, ovvero una città che è l’autentica proiezione del regista.
Punto di snodo per una poetica d’autore che sta lasciando il porto sicuro della commedia brillante per privilegiare una riflessione sull’inconscio filtrata dalla ricerca delle ragioni del vivere (il celebre monologo che prelude allo scioglimento finale), questo film è la cosa più simile a un quadro astratto che il cinema americano abbia mai concepito. La leggerezza viene raggiunta attraverso il setaccio dei modelli espressivi, fino a ottenere un’equivalenza tra il pulsare della vita nel territorio metropolitano e il caos emotivo dell’individuo che si riassume nel grande punto interrogativo retorico che Allen finge di voler ipostatizzare. Le storie di coppia e di solitudine diventano piccolo teatro dei sentimenti, dagli stereotipi di comportamento si sale al confronto tra l’infinitamente piccolo degli individui e l’infinitamente grande degli spazi, dai luoghi ci si astrae confrontandoli con le emozioni inconsce e i pensieri universali. E alla fine ciò che resta è l’abbacinante bianco e nero delle cose e il colore intenso dei suoni, le sfumature sempre cangianti della rapsodia gershwiniana.
(Giorgio Gosetti, Enciclopedia del cinema Treccani, 2004)