In fondo non è così stramba l’idea di affidare a Roberto Benigni il ruolo ispirato al “canaro della Magliana”, protagonista di uno dei più clamorosi fattacci della cronaca nera romana. Il termine non è casuale, se non altro perché all’origine – magari recondita – di Dogman potrebbe esserci proprio una delle quattro storie vere ripensate in Fattacci da Vincenzo Cerami, lo sceneggiatore che ha plasmato il versante lunare di Benigni. E proprio da quella raccolta Matteo Garrone, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso trovarono le basi per L’imbalsamatore, che rileggeva in chiave noir il delitto del “nano di Termini”, interpretato non a caso da un adepto della sceneggiata come Ernesto Mahieux. Ma il canaro e il nano sono anche soggetti che hanno ormai perso i rispettivi nomi per trasfigurarsi in personaggi definiti da una professione singolare o da una caratteristica fisica, con un preciso riferimento toponomastico nella geografia della Capitale.

Nel momento in cui molti autori esplorano la periferia romana con un forte ancoraggio al realismo (Non essere cattivo, Il più grande sogno, Fiore…), Garrone l’ha trovata ai confini di Castel Volturno, sottolineando ancora una volta una sensibilità artistica unica nel sublimare la realtà al crocevia dell’immaginazione. Come Reality, che edificava il suo incubo onirico nel cuore di una decadente Napoli già principesca, e più di quanto accadesse ne Il racconto dei racconti, quasi imprigionato nei maestosi castelli dove costeggiare il formalismo dell’esercizio di stile, Dogman rende più che mai personaggio lo spazio. Ovvero l’ipotesi di una Roma marginale e disgraziata, pennellata dai pochi cromatismi dell’incredibile fotografia di Nicolaj Brüel, una terra desolata, opprimente, sudicia, ripresa spesso in campo lungo, il cui squallore emerge dentro le pozzanghere profonde quanto l’angoscia di non saper reagire al sopruso così come nelle soleggiate sieste ai tavoli delle trattorie ultrapopolari.

Film che ha richiesto una lunghissima gestazione, precedente alla svolta di Gomorra, e molte riscritture cominciate fondate su una sempre più profonda negoziazione tra la suggestione della cronaca nera e la rilettura fiabesca benché tetra e nerissima, Dogman non è solo il trionfo di Garrone ma anche di una certa idea di cinema artigianale. Capace di incidere dentro una violenza sì soprattutto psicologica ma che quando esplode nella sua brutalità deve molto agli stacchi di montaggio di Marco Spoletini quanto di scegliere facce – e corpi vestiti quasi sempre nello stesso modo, come in un cartoon – che sembrano non essere mai uscite da quel perimetro di palazzi malridotti.

Come pressoché tutti i comprimari, Edoardo Pesce ha spesso frequentato quel filone periferico-romano prima ricordato (Romanzo criminale – La serie, Cuori puri, Fortunata): tuttavia è impossibile trovare qualcosa di comparabile al suo imponente e spregevole pugile dalla faccia tumefatta, costantemente strafatto di cocaina. Così com’è impossibile pensare a qualcuno al posto dell’inedito Marcello Fonte, vittima candidamente contraddittoria sospesa tra qualche sniffata di troppo e la straordinaria dedizione ai cani, una struggente ed intollerabile omertà e l’amore salvifico per la figlioletta. Certo, una scelta di casting nel solco della folgorazione neorealistica tipica di Garrone (Salvatore Sansone, Vitaliano Trevisan, Aniello Arena…), ma che si fa irrinunciabile quando, in un finale di implacabile ed atroce disperazione, quel corpo minuto e ferito riesce prima a suggerire un’antifrastica dimensione biblica e poi ad improvvisarsi antieroe che trascina il cadavere del carnefice attorno alle mura del suo piccolo mondo.