Cosa resterà di questi anni Novanta? Se lo sta domanda a più riprese il cinema contemporaneo che, ormai, sembra aver sincronizzato il suo orologio biologico su un ritardo trentennale rispetto all’immaginario che lo precede. Pensiamoci, gli anni Dieci del nuovo millennio si sono basati in tutto e per tutti sugli Ottanta del secolo scorso. Allo stesso modo, ora che siamo negli anni Venti, tocca ai Novanta tornare alla ribalta.

Dogman, ultima fatica del regista francese Luc Besson presentata in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, sembra attingere direttamente da questo humus proponendo un’operazione commerciale di tutto rispetto, calata nelle maglie di un tessuto cinematografico proprio non solamente di un immaginario più ampio ma, soprattutto, in quello del suo medesimo autore.

Regista e sceneggiatore eclettico capace di unire un certo gusto raffinato tipicamente europeo con i codici del cinema hollywoodiano, Besson (considerato da alcuni "lo Steven Spielberg francese") appartiene, come formazione, alla New Wave del cinema d’oltralpe che si è affermata all'inizio degli anni Ottanta. Questa corrente, nata dal fermento culturale parigino dell’epoca, in cui confluivano moda, musica e cinema all'interno di una matrice cinephile neo pop, vedeva come esponenti di spicco Leos Carax, Jean-Jacques Beineix e, appunto, Besson.

Quest’ultimo resta però quello che dei tre è esploso a livello commerciale, ritagliandosi anche l’etichetta di più grande regista europeo di blockbuster. Senza mai manifestare momenti di stallo o ripiegarsi in lunghi periodi di inattività (cosa accaduta a Carax e, soprattutto, a Beineix), Besson è sempre stato capace di radicarsi nel proprio tempo dimostrando una grande capacità di interpretare la contemporaneità che lo circonda, attraverso una costante rilettura in chiave moderna dei generi cinematografici che gli ha permesso di rimanere, pur con alti e bassi, sulla cresta dell'onda.

Ora, dopo anni in cui l’autore sembrava lontano dal centrare il bersaglio, tutto questo magma torna protagonista in Dogman. Vuoi per la natura del progetto (decisamente nelle corde del regista a differenza del materiale di partenza dei titoli appena precedenti), vuoi per il ritorno del gusto, dello sguardo e dell’immaginario che hanno portato maggiormente fortuna a Besson, Dogman esplode nel suo concentrato di queerness, action e pulp.

Il film è il frutto di questa commistione culturale, che guarda al cinema di genere, ad accattivanti soluzioni stilistiche, all'importanza della musica come valori aggiunti nella messa in scena e alla costruzione di un personaggio iconico che sia specchio della contemporaneità. Besson evidenzia in maniera ancora più marcata, rispetto a quanto fatto in passato, la sua duplice natura: da una parte il regista ribelle e insofferente alle regole (quasi post punk), dall'altra l’autore dalla vena malinconica.

Con Dogman, l’autore torna “a casa”. Proprio come il tormentone legato al quadrupede più famoso del grande schermo. Dog. Man.