Riprendere in mano un film del passato costituisce spesso l’occasione per ripensarlo alla luce del tempo trascorso, rendergli giustizia perché incompreso all’uscita oppure ridimensionarlo rispetto ai giudizi dell’epoca. Il caso di Kapò, restaurato in 4K da Cineteca di Bologna e Cristaldi Film, è abbastanza particolare. Secondo opus della parca carriera di Gillo Pontecorvo, buon successo di pubblico, candidato all’Oscar per il miglior film straniero, è stato negli anni un po’ trascurato, quasi dimenticato e perfino scalzato dalla fortuna di un celebre e violento intervento critico.

Sembrerà strano, forse eccessivo, eppure Kapò è diventato ormai “un carrello”. Quello, condannato da Jacques Rivette sui Cahiers du cinéma, in cui Pontecorvo mostra il suicidio di Emmanuelle Riva sui fili elettrificati: “l’uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inquadratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo disprezzo”. Benché Pontecorvo abbia motivato la scelta – certo spericolata – sottolineando che il fulcro dell’azione non è nel gesto estremo della suicida ma nell’indifferenza e nell’assuefazione alla morte delle prigioniere sullo sfondo, “il carrello di Kapò” – reso immortale da un fondamentale saggio di Serge Daney così intitolato – è un’espressione entrata nell’immaginario cinefilo, al punto che anche chi non l’ha mai visto lo prende a metro di paragone per tutte quelle scene che non andrebbero spettacolarizzate.

A distanza di sessant’anni, peraltro in occasione del decennale della scomparsa di Pontecorvo, rileggere Kapò è un’operazione necessaria, non tanto per rivalutarlo quale capolavoro assoluto o ribadirne la presunta abiezione morale, quanto piuttosto per metterne in evidenza alcuni elementi che il tempo ha sommerso sotto le conseguenze di quel famoso carrello. Sappiamo che si tratta della tragica storia di una ragazza che, deportata prima a Auschwitz e poi in un campo di lavoro in Polonia, riesce a dissimulare l’origine ebraica grazie a uno stratagemma e finisce per diventare kapò pur di sopravvivere nell’inferno della barbarie nazista.

Tra i primi film italiani ad affrontare il tema della deportazione e tra i pochi a raccontare una vicenda tanto scomoda di degradazione (pur con riscatto finale), Kapò è il frutto della vivace dialettica tra Pontecorvo e Franco Solinas, prodotto da Franco Cristaldi nella prospettiva di una distribuzione fuori dai confini nazionali. Il cast è, in questo senso, indicativo, con Susan Strasberg a portare in dote la scuola del metodo, i rampanti francesi Riva e Laurent Terzieff e gli italiani a far da coro, su tutti la barbara e devastata Didi Perego. Ma, tra qualche cosa che non torna (la tendenza a enfatizzare, i virtuosismi di regia, le incongruenze dovute al doppiaggio che annulla il coacervo linguistico…), di Kapò vorremmo sottolineare due elementi poco celebrati.

Il primo è la fotografia accreditata a Aleksandar Sekulovic, scelto per doveri di coproduzione con la Jugoslavia: se in prima battuta segue il probabile indirizzo di Cristaldi nel dare un’estetica patinata fruibile per il mercato internazionale, il successivo intervento sulla pellicola dell’operatore della seconda unità Marcello Gatti (poi dop di La battaglia di Algeri, il capolavoro di Pontecorvo) trasforma l’immagine nell’ottica di un reperto cronachistico, un efficace falso storico. Il secondo è la colonna sonora di Carlo Rustichelli: questo grande e prolifico compositore, amato da Pietro Germi e Mario Monicelli, s’inventa una partitura incessante e perturbante, modulata sul fischio del treno, con intuizioni originali come certe musiche di Mario Nascimbene (le macchine da scrivere di Roma ore 11).