Presentato alle Giornate degli autori di Venezia ‘74, e ora in prima visione, Dove cadono le ombre è il primo lungometraggio di finzione della documentarista di origine brindisina Valentina Pedicini, già nota agli operatori del settore per il documentario Dal profondo (Premio Solinas 2011) che aveva il merito di narrare le vicende di una delle ultime minatrici donne dal suo punto di vista di lavoratrice “sotto terra”.
La regista affronta il debutto sul grande schermo con una storia, per niente facile da raccontare, quella di uno sterminio, poco conosciuto e alquanto recente, una pagina buia nella storia della Svizzera, venuta a galla solo negli anni ‘80. Dal 1926 al 1975 la Federazione Elvetica finanziò infatti un programma di “rieducazione infantile” detto “Pro Juventute”, basato su un sistematico tentativo di sterminio genetico del popolo nomade degli Jenisch (anche conosciuti come “zingari bianchi”). Il Governo strappava alle famiglie Jenisch i loro bambini rinchiudendoli in appositi istituti per orfani o per malati mentali, caratterizzati dalla matrice dell’eugenetica: qui essi venivano sottoposti a torture fisiche (sterilizzazione, bagni gelati, elettroshock) e psichiche nel tentativo di rieducarli e cancellare in loro ogni traccia “genetica” appunto dell’etnia originaria.
In tutto i bambini vittima di questo sciagurato programma furono tra i 600 e i 2000, tra questi si annovera la poetessa Mariella Mehr della quale le didascalie del film riprendono alcuni versi.
Dove cadono le ombre sceglie di raccontarci questa storia da una prospettiva non esplicitamente narrativa, ma piuttosto psichica ed affettiva, come se il contenuto da svelare fosse troppo tragico per poter essere esposto in modo didascalico. Questo approccio di interiorizzazione di una storia (una tragedia) collettiva, tramite il punto di vista di una delle vittime è sicuramente il pregio principale del film.
Con un meccanismo di svelamento progressivo, scopriremo tramite una serie di flashback, che dietro all’identità di ciascuno dei protagonisti si nasconde una doppia valenza, a partire dall’ospizio, che in passato fu uno degli orfanotrofi a perpetrare le torture del progetto Pro Juventute ai bambini Jenisch, proprio quello in cui furono cresciuti Anna e Hans, bambini strappati alle loro famiglie, da Gertrud, medico a capo del progetto.
I protagonisti vivono come intrappolati nella casa di cura e nel loro passato, si muovono con angoscia tra i corridoi e le anguste stanze del centro, come nei traumi del proprio passato. Anna, fronte corrugata, occhi gelidi, e castissimo chignon, ha imparato a vivere una vita apparentemente normale nonostante tutto, ma c’è qualcosa dentro che ancora la divora. La deprivazione affettiva subita da queste ennesime vittime di un olocausto che non deve , per dignità, essere definito minore, ha trovato come via di scampo l’attaccamento all’unico essere umano disponibile nel suo panorama: il suo carnefice. Come una partita a poker giocata da bluffatori professionisti, si invertono e si cambiano di continuo nel film i ruoli di vittima-carnefice, buoni o cattivi, grazie al montaggio alternato che mescola e confonde di continuo il passato col presente, il flashback e la quotidianità, ciò che è realmente accaduto, con ciò che la protagonista crede di sapere. Pedicini fotografa con una ricerca formale ossessiva lo scenario del dramma, quasi a scivolare in una asettica freddezza, che invece è funzionale proprio a rappresentare la freddezza dell’animo umano congelato come reazione di sopravvivenza alla crudeltà.
Chi è il diverso? Quali sono gli abissi più fondi raggiungibili dalla coscienza? Chi è il vero mostro? La giustificazione pronunciata da Gertrud alle sue infamità è che “non c’è un modo gentile per rendere il mondo un posto migliore”. Eppure non riusciamo a convincerci del fatto che ancora una volta la follia del genere umano riesca ad asservire la scienza ai suoi orrendi scopi, realizzando simili non-luoghi di disumanità. Lo straniamento delle due protagoniste Cotta e Rosellini ci conduce per mano nella non accettazione di quanto esposto, nel rifiuto della narrazione di una storia che non vorremmo affatto ascoltare. Una storia fatta di due materie impalpabili: ombre e freddo. Davvero un esordio apprezzabile dunque quello della regista che, con coraggio, sceglie di mettersi alla prova su un tema ostico, con un registro espressivo chiaramente autoriale, uno stile rigoroso e decisamente poco ammiccante. Ma chi lo dice che questi siano dei difetti?
Infine siamo fermamente convinti che sentiremo ancora molto parlare di Federica Rosellini, che oltre ad aggiudicarsi uno dei premi collaterali della Mostra (NuovoImaie Talent Award) come miglior protagonista, ha dato prova di grande spessore.