Chi si domanda il perché nel Regno Unito la stragrande maggioranza dei cittadini, o meglio dei sudditi, sia ancora convintamente favorevole alla monarchia dovrebbe vedere, più che il pur fondamentale The Crown di Netfilx, Downton Abbey, caso televisivo in madrepatria e nelle ex-colonie d’oltreoceano creato nel 2010 dallo sceneggiatore premio Oscar Julian Fellowes. Dopo 52 episodi e sei stagioni (l’ultima è del 2015), la serie che racconta i rapporti tra la nobile famiglia Crawley e la servitù della dimora di Downton approda sul grande schermo, seguendo i preparativi per l’arrivo nella grande magione dello Yorkshire di Re Giorgio V e della regina Mary di Tek.

Lo spunto narrativo serve a Fellowes per riprendere le fila del discorso e per portare avanti la sua riflessione sull’enorme cambiamento avvenuto tra la fine del secolo scorso e il primo dopoguerra nella rigida divisione di classe del Regno Unito. Il racconto della scomparsa di un sistema diventato ormai inaccettabile, ma anche una più profonda riflessione sulla persistenza, ancora non sopita, della fascinazione per quel mondo e quel sistema. Il rapporto tra “piani bassi e piani alti”, tra servitù e serviti, ha la capacità di simboleggiare perfettamente questo cruciale e problematico elemento della società britannica, come dimostrano le tante opere dedicate all’argomento, dalla storica serie ITV Su e giù per le scale fino al bellissimo Quel che resta del giorno, romanzo del premio Nobel Kazuo Ishiguro trasposto al cinema da James Ivory. Downton Abbey si inserisce in questo solco, raccontando in parallelo la storia di due classi sociali e dei drammi storici che colpirono entrambe creando delle spaccature nel muro invalicabile che le separava.

La sceneggiatura di Fellowes è la vera colonna portante di serie e film, e dimostra tutta l’abilità dell’autore (evidente fin dai tempi dell’atmaniano Gosford Park, primo tassello della sua riflessione sul rapporto tra la servitù e i loro signori) nel gestire i racconti corali, lasciando a tutti i personaggi il giusto spazio e la possibilità di sviluppare la propria storia personale. Al cast storico si aggiunge Imelda Staunton, protagonista di alcuni imperdibili scambi al vetriolo con una grande Maggie Smith, a cui sono riservate le battute più sagaci. Schegge di umorismo british che sono l’acqua alla vita di un film capace sia di soddisfare i fan che di coinvolgere i neofiti, pur perdendo qualcosa della complessità e della capacità di analisi sociale a cui ci aveva abituato la serie TV.

L’elemento più interessante di questo passaggio al grande schermo sta proprio nella Visita Reale. Nell’uguale devozione di piani bassi e piani alti verso la monarchia (con qualche significativo, bolscevico, distinguo) si legge in controluce la necessità condivisa di credere in un “dio monarchico”, un’istituzione solida e immutabile capace di personificare radici e spirito dell’intera nazione e di preservarne l’onore nei momenti di difficoltà. Una necessità, visto il grande successo di Downton Abbey, non solo del passato ma anche di un incerto e a volte incomprensibile presente.