"Get your motor running", come recita il testo di Born to Be Wild negli iconici titoli di testa del primo film diretto da Hopper, Easy Rider. È forse questo il film che più di tutti ha contribuito a creare un mito attorno alla controcultura in America, una voce diversa nel panorama cinematografico dell’epoca. Il viaggio di Capitan America e Billy è lo stesso di molti giovani degli anni Sessanta, che non temono l’autorità, e cercano di plasmare un mondo più giusto. Dopo cinquant’anni viene proiettato e le sedie non bastano a contenere il pubblico, che si riversa sulle scalinate, per terra o attorno allo schermo rendendo Piazza Maggiore, per una sera, Woodstock. Easy Rider, il road movie per eccellenza, non ha mai smesso di influenzare il cinema che è seguito (Sugarland Express, Thelma e Louise) perché Hopper e Fonda, i due fantastici antieroi di questa storia, restituiscono allo spettatore ben più di un viaggio in un’America rurale, comunicano l’inestinguibile bisogno di libertà.

Il loro percorso assume le connotazioni del western, l’esplorazione speranzosa dei pionieri, alla ricerca di una terra incontaminata su cui prosperare. I territori intrisi di spiritualità che Wyatt e Billy (riferimento a Wyatt Earp e Billy the Kid, due celebrità del far west) percorrono a bordo delle loro moto sembrano immuni al degrado morale delle città da cui stanno scappando. Sulla loro strada incontrano i personaggi più bizzarri ma è solo quando si fermano, quando sostano nei piccoli centri abitati che violenza e ingiustizia li raggiungono. Come l’alcolizzato George (interpretato magistralmente da Jack Nicholson) dirà, loro fano paura perché rappresentano la libertà, e ci sarà sempre qualcuno a volerli schiacciare.

La ricerca spirituale dei due è messa in scena da Hopper, in quanto regista, in maniera del tutto particolare. Debitore verso un certo cinema europeo dell’epoca (i film della Nouvelle Vague su tutti), che cercavano di rinnovare il linguaggio cinematografico per narrare nuove storie, Hopper si cimenta in sperimentazioni che, con ogni probabilità, una major hollywoodiana non avrebbe mai accettato. I sorprendenti e per nulla ortodossi stacchi di montaggio intermittenti che sembrano far succedere le inquadrature sbattendo gli occhi, la morbosità eroticizzante con cui si sofferma sulle motociclette, la sequenza delirante e intrisa di blasfemia del cimitero fanno di Easy Rider un’opera con cui qualsiasi film a venire, che pretenda di definirsi libero, dovrà necessariamente confrontarsi.