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“Easy Rider” e il percorso spirituale della contro-cultura

La ricerca spirituale dei due è messa in scena da Hopper, in quanto regista, in maniera del tutto particolare. Debitore verso un certo cinema europeo dell’epoca (i film della Nouvelle Vague su tutti), che cercavano di rinnovare il linguaggio cinematografico per narrare nuove storie, Hopper si cimenta in sperimentazioni che, con ogni probabilità, una major hollywoodiana non avrebbe mai accettato. I sorprendenti e per nulla ortodossi stacchi di montaggio intermittenti che sembrano far succedere le inquadrature sbattendo gli occhi, la morbosità eroticizzante con cui si sofferma sulle motociclette, la sequenza delirante e intrisa di blasfemia del cimitero fanno di Easy Rider un’opera con cui qualsiasi film a venire, che pretenda di definirsi libero, dovrà necessariamente confrontarsi.

“Easy Rider” tra Cinema e Sessantotto

Pensato dal regista Hopper e dal produttore Fonda come un western, coi nomi dei due protagonisti che rimandano direttamente a Wyatt Earp e Billy The Kid,  Easy Rider conserva la capacità di mitizzazione del genere, ma sa rielaborarla con una retorica del tutto nuova: l’epica degli affreschi paesaggistici e della moto come simbolo si accompagna a una colonna sonora rock potentissima  e dialoghi sconclusionati ma emotivamente evocativi, in parte improvvisati dagli stessi attori sotto l’effetto di droghe. Affianca a un passo del racconto maestoso e per molti versi classico, anche momenti di montaggio serrati, violenti, ricchi di inusuali flash-forward, e una scena nel cimitero da cinema sperimentale. Easy Rider è un film sulla libertà come apertura alle possibilità, ma anche come senso di inappartenenza alla realtà dominante.