Il desiderio ossessivo è la cifra stilistica di Buñuel. Percorre la sua carriera per intero, attraversandola in forme e visioni diverse. Anche i film del periodo in Messico, che sono quelli più ancorati al contesto produttivo e industriale del tempo, portano la traccia di tutte le fissazioni del regista spagnolo (naturalizzato messicano). Un cinema che, come quello dei grandi autori, torna ripetutamente su di sé, e che individua il suo epicentro nella figura cardine della poetica buñueliana: il borghese impotente.

Él (Lui, 1953) si centra fin dal titolo su questa maschera narrativa. Il protagonista del film è Francisco, un uomo devoto e gelosissimo che, dopo aver preso in sposa la bella Gloria, sfoga su di lei la propria nevrosi paranoica, facendone l’oggetto delle sue velleità possessive e del suo distorto senso religioso. Pur giocando con abilità sulla prospettiva del racconto, e sfruttando il punto di vista di Gloria per sostenere la narrazione a incastri e flashback, il capolavoro di Buñuel appare come una visione prevalentemente e morbosamente maschile, attento com’è a cogliere le derive comportamentali dell’orco-Francisco. Nel bersaglio della pellicola, che si fa più diabolica e maliziosa col procedere della storia, c’è tutta la virilità inconcludente che il regista spagnolo amava prendere in giro.

Il merito principale del film, considerato giustamente uno dei vertici della produzione di Buñuel, è la capacità di sintesi con cui l’autore è riuscito a instillare la sua caustica poetica nelle forme appassionate del melodramma. Alla luce dell’intera opera buñueliana, Él appare oggi come uno dei lavori più compatti del celebre cineasta, nonché uno di quelli più diretti nel restituirne la visione beffarda e anticlericale.

Imbastito come uno sfarzoso dramma matrimoniale (e le similitudini con l’Hitchcock di Rebecca non sono poche), Él è un melò ripiegato su se stesso, che tradisce la propria vena sentimentale in favore di una satira allucinata e sfaccettata, aguzza nella sua dimensione patologica e brillante in quella sociologica. Un mescolamento reso possibile grazie alla partecipazione di Luis Alcoriza, con cui Buñuel scrisse la sceneggiatura a partire da un romanzo di Mercedes Pinto.

Il regista lavorò spesso con Alcoriza nel corso della sua permanenza in Messico, firmando insieme a lui alcuni delle opere più significative di quel periodo (due fra tutte: I figli della violenza e L’angelo sterminatore). Nelle loro collaborazioni migliori, la coppia di autori riuscì a fondere gusto drammatico e ambizioni ideologiche, sublimando il contrasto tra amore e morte tipico del melodramma nell’ottica di una sardonica vitalità politica, che non risparmia colpi nella disamina delle istituzioni borghesi – di cui la sterile mascolinità rappresenta il controcampo sentimentale.

Parte del terribile divertimento che scaturisce dalla visione di Él, comunque fra i film più cupi e drammatici del regista, viene proprio dall’accanimento con cui Buñuel prende di mira il suo antieroe, dall’insistenza nel mostrarne la comica mostruosità, dalla capacità di rappresentarne i deliri in forma visuale, passando rapidamente dalla serietà all’ironia, dal sacro al profano. I piedi di Gloria, la campana minacciosa (come in Tristana?), lo zig-zag nevrotico del “santo Francisco”, sono immagini-simbolo delle manie che l’autore ha sbeffeggiato lungo tutta la sua carriera. In questo senso, Él è un distillato corrosivo della poetica del regista spagnolo: un vero e proprio compendio buñueliano.