In occasione della distribuzione di "Él" restaurato, ecco un viaggio nella critica e nell'analisi del film, con tante firme importanti che se ne sono occupate.
Nell’anima di quest’eroe dalle risonanze dostoevskiane tutta l’incoerenza del mondo e della società esplode provocando una terribile distruzione. Luis Buñuel è riuscito a realizzare il ritratto di una passione: non sarà certo l’alibi della follia, fornito a questo genere di personaggi dagli individui comuni, a nasconderci l’originalità del suo progetto.
Michel Dorsay, “Cahiers du cinéma”, n. 37, luglio 1954
Un vago ricordo di L’Âge d’or si ha dinanzi alla sequenza iniziale di Él, la funzione nella cattedrale durante una settimana santa. In seguito, il film si avvicina al dramma di Otello; ma l’uomo che qui diventa pazzo di gelosia, al punto di tentare più volte di uccidere la moglie, è un paranoico che può interessare soltanto i patiti di Freud. Tutta l’opera di Buñuel, sopravvalutata specie in Francia, va revisionata al lume delle recenti esperienze, di certe sue dichiarazioni sul pubblico inteso come élite.
Su questo regista pesa l’avanguardia di un tempo (oggi retroguardia); comunque egli ha fatto un passo indietro rispetto al pur discutibile Los olvidados, che cercava di rifarsi a Sciuscià di De Sica.
Guido Aristarco, “Cinema Nuovo”, n. 11, maggio 1953
Mi sembra dunque perfettamente giustificato considerare Él come una sorta di equivalente cinematografico dei ‘trompe d’œil’ surrealisti. La psicologia e la morale borghese vi giocano il ruolo della prospettiva e della nitidezza fotografica, ma questo universo civile e ordinato, meravigliosamente leggibile, si screpola con nitidezza sull’intollerabile.
Per un paradosso estetico, di cui è facile l’analisi il surrealismo nasce qui da una oggettività spinta tanto lontano da attraversare il suo oggetto da parte a parte, dapprima affermandolo implacabilmente solo per meglio andare al di là delle apparenze, ma attraverso queste stesse apparenze. Così si ritrova in Él la stessa obiettività documentaria esacerbata che era all’inizio del film Las Hurdes. Buñuel ama dire che egli si è interessato a Francisco con la curiosità con cui avrebbe osservato il comportamento di un topo. Dice anche che ha gusti da entomologo e che osserva il suo personaggio come un insetto. Ricordate in Las Hurdes la sequenza sulle zanzare anofeli, vettori di malaria?
André Bazin, “France-Observateur”, 17 giugno 1954
Come alcuni hanno già notato, le tesi del signor Buñuel non sono molto profonde. Noi vorremmo definirle piuttosto confuse. Ma grazie all’intervento del direttore della fotografia Figueroa, egli è riuscito a darci delle splendide immagini delle cattedrali messicane e delle loro torri campanarie […]. Egli è anche riuscito ad ottenere da alcuni suoi attori delle ottime interpretazioni: nei panni del marito pazzo, Arturo de Córdova, fornisce un sensibile, seppur forzato, ritratto dell’uomo tormentato dall’amore e dalla malattia mentale.
A.H. Weiler, “New York Times”, 10 dicembre 1955
Nel 1953 la carriera registica di Luis Buñuel stava riprendendo con maggiore libertà e intraprendenza in Messico. Dopo il successo europeo di I figli della violenza, Luis Buñuel adattò con il suo complice e collaboratore abituale Luis Alcoriza il romanzo Él di Mercedes Pinto: più che una storia di fantasia era la cronaca dettagliata del terrificante calvario vissuto da vittima di un marito megalomane e gelosissimo che era, in realtà, un caso grave di delirio paranoide (Lacan mostrava questo film ai suoi studenti di psichiatria come buona illustrazione della malattia).
Magnificamente interpretato da Arturo de Córdova, Francisco Galván è ciò che in Spagna si chiama meapilas, un baciapile: un devoto ‘cristiano buono e puro’, ma di fatto un vergine di mezza età. Ossessionato dai piedi calzati di un’altra fedele, Gloria (Delia Garcés), la corteggia finché questa non rompe con il fidanzato per sposare lui, sorprendentemente affascinata com’è dal suo carattere dispotico. Ma già durante la luna di miele Gloria scopre e subisce la gelosia completamente ingiustificata dell’uomo, che interpreta maniacalmente ogni cosa come gesto beffardo e come prova dell’infedeltà della moglie o di complotti contro di sé e contro i propri interessi finanziari e patrimoniali. Diffida di sua moglie, dei suoi avvocati e di quasi tutti, disprezza gli esseri umani che considera parassiti e afferma in modo megalomane che se fosse Dio non perdonerebbe mai l’umanità.
Sebbene di solito Luis Buñuel fosse un grande umorista e un perenne surrealista, questo – un po’ come Il ladro di Hitchcock – è probabilmente uno dei suoi film più seri, e anche uno dei più complessi e maggiormente caratterizzati da un narrazione tesa ed ellittica, e si conclude con una delle più inquietanti scene finali mai girate. Considerato da molti il migliore tra i capolavori di Buñuel insieme a Estasi di un delitto e a L’angelo sterminatore, contiene alcune immagini che spingono a chiedersi se Hitchcock avesse visto e ricordasse Él quando girò La donna che visse due volte cinque anni dopo.
Miguel Marías, Il Cinema Ritrovato 2022, Cineteca di Bologna, 2022
Buñuel si è basato su un libro, Él, dedicato dall’autrice, la spagnola delle Canarie Mercedes Pinto, al racconto della sua difficile vita con il marito, il duca de Foronda (padre di Pituka, sorella per parte di madre di Gustavo e Rubén Rojo). Buñuel ricavò da queste pagine un caso di gelosia paranoica e si dedicò con pietà e umorismo a trattarlo con uno stile da entomologo, disciplina molto cara al regista. Lo stesso protagonista vi allude dal campanile della chiesa, dove ha portato la moglie, paragonando le persone che si vedono da lassù a formiche, e aggiunge: “Mi piacerebbe essere Dio, per schiacciarle...”. Ma nel caso di Buñuel le parole ‘analisi’ o ‘esame’ suonano piuttosto pedanti, perché la sua osservazione entomologica di un personaggio lo coinvolge in prima persona: è anche un’osservazione verso l’interno […]. Il film inizia in una chiesa con la cerimonia religiosa della lavanda dei piedi; il sacerdote lava i piedi dei membri del coro e il protagonista, che ha ricevuto l’onore di portare la brocca dell’acqua, e ostenta la fascia di Cavaliere del Santo Sacramento sul petto, passa dalla devozione filopoda al feticismo filopodo: dopo che il suo sguardo indifferente è passato su altri piedi, si fissa su quelli della protagonista (la bella e dolce argentina Delia Garcés). E così scoppia in lui l’amour fou, assoluto e insaziabile, che lo accomuna al protagonista di L’Âge d’or [...]. Quello squilibrato che ignora il suo squilibrio esige che tutto ciò che lo circonda sia di un’armonia e di un equilibrio perfetti, e non trovandoli si disinteressa della realtà oggettiva e proietta dappertutto le sue inquietudini [...] Él, ozioso borghese di quarantacinque anni, che arriva vergine al matrimonio, mi ricorda – è una mia impressione – un bambino solo che comunica col mondo solo attraverso il ricordo di un seno che apparteneva solo a lui, e che teme che gli altri gli portino via, quei “vermi che strisciano per terra” che, se fosse Dio, dice, “non perdonerebbe mai”.
Emilio García Riera, Historia documental del cine mexicano, Universidad de Guadalajara, 1993