"Girato nel 1952 dopo Robinson Crusoe, Él è uno dei miei film preferiti. A dire il vero non ha niente di messicano. L’azione potrebbe svolgersi in qualsiasi posto, dato che presenta il ritratto di un paranoico".
Luis Buñuel
Dal racconto al film
Il film è basato su un lavoro di Mercedes Pinto, una via di mezzo tra un romanzo e una testimonianza di un fatto vissuto.
Un libro interessante che aveva scritto con annotazioni sulla vita con suo marito, Foronda. Certe pagine si sarebbero potute utilizzare direttamente nel film. Per esempio, quando lei si trovava in giardino a sistemare i fiori, arrivava Foronda che, vedendo di lontano che in una torre c’è un campanaro occupato nelle sue faccende, veniva immediatamente assalito dalla gelosia: “Cagna te la intendi con quell’uomo!”, e la picchiava.
Cosa pensò l’autrice del libro della sua trasposizione cinematografica?
Le piacque molto. Non successe come con Estasi di un delitto, quando Usigli protestò per come avevo trattato il suo romanzo.
Luis Buñuel, Buñuel secondo Buñuel, a cura di Tomás Pérez Turrent e José de la Colina, Ubulibri, Milano 1993
A fine novembre del 1952 Buñuel inizia poi quello che è destinato a diventare uno dei suoi film favoriti del periodo messicano: Él, saggio di psicopatologia e di entomologia umana di cui ha scritto anche la sceneggiatura, modificando questa volta sostanzialmente il racconto omonimo di Mercedes Pinto a cui si è ispirato. Per la scrittrice canaria, che lo aveva pubblicato nel 1926 a Montevideo come roman ma incorniciandolo con una batteria di prefazioni e appendici psichiatriche e giuridiche per attestarne l’attendibilità, il libro era una sorta di diario poetico-onirico, il lamentoso racconto della sua vita da incubo con un marito geloso, possessivo e paranoico, nominato sempre e solo come ‘él’, lui. Una storia che forse ha colpito Buñuel – anzi sua moglie Jeanne ne è assolutamente convinta – per ragioni anche personali: insomma, senza bisogno di parlare di motivi autobiografici, pure don Luis un po’ geloso lo è.
Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini&Castoldi, Milano 2000
L’ambientazione
In Él ci sono spazi molto chiusi, quasi soffocanti: la casa, lo scompartimento del treno, la stanza dell’albergo, la chiesa, il monastero.
Lì la scenografia è in uno stile che mi piace, perché mio padre, che era un “indiano”, come dice il pittore Gironella, si fece una casa in stile ’900, un po’ art nouveau. Amo quell’epoca. Dalí ed io eravamo affascinati dallo stile art nouveau e dall’architettura di Gaudí.
Venne girato interamente in studio?
Interamente: la sala, la scala, le stanze al piano di sopra. Ho girato pochi esterni. Gli oggetti sono importanti. Francisco chiama il cameriere e gli dice: ‘'Raddrizzi quel quadro, è storto”. Un quadro storto alla parete, un libro non allineato nel ripiano sono tutti elementi che mi inquietano.
Luis Buñuel, Buñuel secondo Buñuel, a cura di Tomás Pérez Turrent e José de la Colina, Ubulibri, Milano 1993
Potrebbe essere il castello di Silling, in cui l’aristocratico sadiano attira la sua vittima. Ma è anche una villa di stile vagamente art nouveau, arredata, secondo i titoli del film, dalla Galleria Chippendale: l’eclettico stile sette-ottocentesco, fantasioso e con ispirazioni esotiche, sembra ben adeguarsi alla psiche contorta del personaggio. Gli stessi suoi invitati commentano l’architettura del salone osservando che in essa “c’è tutto, dalla ragione alla fantasia, dall’emozione all’istinto”. Ma quel miscuglio di chippendale e liberty floreale, secondo i ricordi di Buñuel, era anche lo stile in cui suo padre aveva costruito la casa di famiglia, col suo gusto di emigrato arricchito ai tropici, e d’altra parte egli stesso e il giovane Dalí amavano molto quelle forme di architettura estrema e visionaria che Gaudí aveva portato allo stadio più fiammeggiante. La villa di Francisco, si dice ancora nel film, era stata costruita da suo padre nel 1900, che è l’anno di nascita di Buñuel: anche la casa suggerisce insomma una certa identificazione fra il regista e il suo personaggio.
Il liberty della villa, e dell’animo di chi la abita, ha un doppio nel barocco della cattedrale, dove la vicenda del film nasce e si conclude, e si contrappone alla linearità della casa materna di Gloria e soprattutto dello studio di Raul.
Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini&Castoldi, Milano 2000
Gli attori
Credo che Delia Garcés, con il suo tono garbato e un po’ goffo, sia molto appropriata al ruolo della moglie. Una moglie ideale per un ‘macho’. Sembra capace di tollerare qualunque cosa fatta dal marito.
Delia Garcés è argentina. Era arrivata in Messico con suo marito e aveva recitato in qualche ruolo. Era effettivamente molto garbata, molto dolce, come la moglie del paranoico che avevo conosciuto in Spagna. […]
Dato che lei riconosce nel personaggio qualcosa di suo, penso che forse non sia così assurdo un dettaglio che credo di aver notato: ci sono dei gesti di Arturo de Córdova, soprattutto delle spalle, che sono i suoi.
Quando dirigo gli attori, faccio a volte un gesto che desidero loro ripetano, per risparmiarmi le descrizioni. Dipende dagli attori il copiarmi o il rifarlo a modo loro.
Arturo de Córdova, un attore così stereotipato, non le ha causato nessuna difficoltà durante la lavorazione?
Sollevò delle obiezioni. Gli pareva sconveniente alzarsi durante la notte per andare nella stanza del suo cameriere, che è in mutande. Temeva di essere preso per omosessuale.
Luis Buñuel, Buñuel secondo Buñuel, a cura di Tomás Pérez Turrent e José de la Colina, Ubulibri, Milano 1993
L’accoglienza
A Cannes invece, dove nel 1952 vengono premiati altri due film messicani, La red di Fernández e Raices di Benito Alazraki, il film viene surrealisticamente presentato in una serata in onore degli ex combattenti e mutilati di guerra, che naturalmente protestano vivacemente. Anche il pubblico dei cinema, come la maggior parte dei critici cinematografici, non gli dedica grandi attenzioni. In Italia non esce nemmeno, in Messico la gente lo va a vedere solo per la presenza di Arturo de Córdova, uno dei più apprezzati ‘amorosi’ del cinema locale che ha lavorato anche a Hollywood. La sua partner Delia Garcés è invece un’argentina arrivata da poco e senza alcun seguito divistico. I messicani però, a differenza degli psicoanalisti francesi, il film lo prendono sul ridere. Il regista ne è un po’ sorpreso ma hanno ragione anche loro. D’altra parte lui stesso si è divertito sul set: nella scena finale, quando si vede che il protagonista don Francisco si è ritirato a calmare i suoi accesi spiriti in un convento, si è fatto fotografare indossando anch’egli un saio da frate.
Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini&Castoldi, Milano 2000
Al suo apparire Él provocò le più disparate reazioni. Se da una parte Herman Weinberg, corrispondente da New York dei “Cahiers du cinéma”, lo definiva “una specie di L’Âge d’or edulcorato, quasi unicamente realizzato per fini commerciali” e Guido Aristarco, in Italia, lo liquidava cogliendo l’occasione per affermare che l’opera di Buñuel era stata sempre sopravvalutata; d’altra parte, invece, la redazione di “Positif” gli dedicò un vasto dossier, con articoli dal tono entusiasta. Come ci informa anche André Bazin, questa storia d’amour fou “sollevò al festival di Cannes del 1953 una vivace disputa. Per la quasi totalità del pubblico e la maggior parte della critica, Él non fu che un costernante melodramma, un’impresa terribilmente scaduta, derivata dal peggior teatro di boulevard 1900”. Dal canto suo, Bazin scrisse più di un articolo sul film: nel primo, in “Rendez-vous de Cannes,” esaltava incondizionatamente Él come un’opera “in cui si insinua perfettamente [...] la suprema mistificazione del cinema attraverso la poesia”.
Alberto Abruzzese, Stefano Masi, I film di Luis Buñuel, Gremese, Roma 1998
A Cannes la stampa non fu buona, con qualche piccola eccezione. Jean Cocteau, che un tempo mi aveva dedicato qualche pagina in Oppio, dichiarò perfino che con Él mi ero “suicidato”. È anche vero che dopo cambiò opinione. […]
In Messico fu un disastro. Il primo giorno Oscar Dancigers uscì dalla sala costernato dicendomi: “Ma ridono!”. Entrai nel cinema e vidi la scena in cui – lontano ricordo delle cabine da spiaggia di San Sebastian – l’uomo affonda un lungo ago in un buco della serratura per accecare lo sconosciuto che immagina dietro la porta, e in effetti tutti ridevano come matti. Ci volle tutto il prestigio di Arturo de Córdova, che aveva il ruolo principale, perché il film restasse in programmazione due o tre settimane.
Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, Rizzoli, Milano 1983