La cosa più commovente è che Vittorio Taviani e Ermanno Olmi hanno lavorato finché hanno potuto. Molti cineasti se ne vanno con l’amarezza di non aver trovato i fondi per il film al quale più tenevano (a proposito: la sceneggiatura mai messa in scena de Il sergente nella neve, scritta con Mario Rigoni Stern, è lì a ricordarci il cruccio di Olmi) o semplicemente per dare vita ad un ultimo spettacolo. Pensiamo alle pensioni forzate di Federico Fellini, Billy Wilder o David Lean. Già provati, Taviani e Olmi, invece, hanno avuto la fortuna – e l’affettuosa complicità di amici produttori – di congedarsi poco dopo le ultime esperienze di lavoro. E curiosamente i loro ultimi film di finzione toccano entrambi la guerra, vista da ragazzini e ripensata da anziani, come a voler chiudere un cerchio su un tema caro: pensiamo giusto a due grandi successi come La notte di San Lorenzo o Il mestiere delle armi.

L’alienante catabasi di Torneranno i prati di Olmi si è imposta nelle rievocazioni della Grande Guerra per la limpidezza, la coerenza, l’essenzialità, il rifiuto della retorica tipica del suo sguardo umanista. Da par loro, guardando all’altra guerra attraverso Beppe Fenoglio, i Taviani di Una questione privata condividono con l’amico e collega il desiderio di lasciare spazio all’intelligenza emotiva dello spettatore. Le immagini, infatti, appaiono sfuggenti anche quando ti illudono di essere didascaliche, suggerendo un mondo nascosto di paure, ricordi e presagi che costituisce il vero cuore pulsante della storia. Col senno di poi, questi due film dal sapore antico eppure impressionanti per modernità testimoniano un analogo, poetico sguardo sul mondo: di fronte alla disgregazione delle certezze, sono gli uomini, con le loro fragilità interiori e un tormentato senso della perdita, ad essere consapevoli di dover farsi carico di una missione che conduca all’uguaglianza, all’armonia con l’ambiente, alla fiducia nel futuro con la coscienza del passato.

Poiché Olmi ha prodotto Una questione privata, il film finisce per assumere oggi una struggente dimensione testamentaria. In realtà, essendo Vittorio già malato, accreditato alla regia è il solo Paolo, che tuttavia ha continuato ad usare la prima persona plurale: “un film di Paolo e Vittorio Taviani”, si legge, appunto, nei titoli. Probabilmente ha ragione chi dice che il cinema dei Taviani, con la sua misteriosa, miracolosa compattezza riflessa nella volontà di non essere considerati non due persone ma una sola entità, non è concepibile dopo la scomparsa di Vittorio. A rendere tutto più emozionante è la morte di Olmi, che Paolo piange come “un terzo fratello”.

Pur differenti per estrazione geografica e sensibilità politica, appartengono a quella generazione di esordienti post-neorealisti che ha lungamente sperimentato, esplorato, elaborato prima di arrivare ai trionfi internazionali, costituendo un laboratorio di ricerca fondamentale sia per le rispettive carriere che per l’intero panorama italiano. Impossibile non sottolineare la straordinaria qualità di lavori mai troppo ricordati come I sovversivi e San Michele aveva un gallo dei ribelli Taviani o I fidanzati e Durante l’estate dell’Olmi più intimo e meno celebrato. Le loro storie si incrociano a Cannes, dove nel 1977 i fratelli vinsero, grazie all’ostinazione del presidente di giuria Roberto Rossellini, la Palma d’oro con Padre padrone, mentre, un anno dopo, Olmi l’ottenne per L’albero degli zoccoli. Diciamo una cosa spesso omessa: furono finanziati dalla più intelligente Rai di sempre, che commissionò sceneggiati e si ritrovò dei capolavori. A rivederli oggi, non perdono un grammo della loro potenza legata in modo ancestrale alla terra e alla religione della fatica, entrambi debitori al realismo ma l’uno incardinato nello spirito del melodramma per via brechtiana e l’altro immerso nella frammentaria sinfonia di una memoria collettiva.

Si potrebbe continuare a setacciare filmografie così affini, ma preferiamo chiudere con un’immagine e una notizia. La prima è quella di un signore di San Miniato, coi baffi bianchi e il basco in testa, che stringe insieme all’inseparabile fratello un Orso d’Oro, un premio (il primo di molti altri) inaspettato per il piccolo e sconvolgente Cesare deve morire, un film che ha concesso loro un bel finale di carriera. Non lasciano eredi ma tracce indelebili. Al contrario, il regista bergamasco ha formato le carriere di giovani cineasti: pensiamo a Giorgio Diritti e Maurizio Zaccaro, allievi della scuola Ipotesi cinema da lui fondata, ma anche alla seguace Alice Rohrwacher. La notizia, diffusa nelle ultime ore da alcuni giornalisti, è questa: solo pochi mesi fa, Sergio Mattarella era pronto a nominare Olmi senatore a vita. Fu lo stesso regista a rifiutare, consapevole di non poter onorare l’incarico per la malattia. Se tralasciamo Eduardo De Filippo, più uomo di teatro che di cinema, sarebbe stato il primo della categoria a ricevere l’onore destinato a coloro che hanno illustrato la patria. Siamo sicuri che la sua saggezza del cuore sarebbe stata preziosa, perché, citando il suo ultimo lavoro, ogni volta che appariva col suo corpo sofferente e tenacemente resiliente sembrava dirci: “vedete, sono uno di voi”.