Essere donne inizia con il montaggio frenetico di “immagini pilota del mito del benessere” come le chiama la voce fuori campo. Un bombardamento che allo spettatore fa capire di essere posto davanti a un’indagine su se stesso. “Chi può riconoscersi in queste immagini?" è questa la domanda posta dal narratore anche a chi sta guardando. Da qui inizia l’indagine di Cecilia Mangini che si addentra nelle fabbriche catturando i timidi e riflessivi sguardi delle operaie dell’epoca. Va anche nei campi a cercare le donne, sempre più sole da quando gli uomini lavorano come operai nelle fabbriche. La Mangini raccoglie inoltre le testimonianze di alcune ragazzine di quindici e sedici anni, quelle che lavorano in un pastificio per 850 lire al giorno.
Il lavoro dovrebbe rendere liberi, ma il capitalismo schiavizza gli uomini e le donne, che già risentono di subordinazioni antiche e tradizionali, sono rese ancora più serve dall’economia. La catena di montaggio e il suo sistema produttivo rende gli operai dei meccanismi impazziti secondo la rappresentazione di Chaplin in Tempi moderni. In Essere donne le lavoratrici davanti alla macchina da presa si confessano ed una di loro dichiara: “Siamo al limite. Non c’è più margine. Sono sempre gli stessi gesti calcolati al decimo di secondo. Dopo otto ore andiamo a casa rotti. Le ossa non ce le sentiamo più. E non ci rendiamo conto che crepiamo vent’anni prima”. A distanza di cinquantacinque anni queste parole continuano a ferire, la condizione della donna o meglio lo sfruttamento del lavoratore è migliorato, ma le figure femminili subiscono ancora quel bombardamento di immagini di “benessere” e soprattutto risentono, nonostante le lotte femministe mostrate da Alina Marazzi in Vogliamo anche le rose, di quelle antiche subordinazioni descritte nel documentario della Mangini.
Essere donne non invecchia, è “trasposizione e chiarimento e scoperta e denuncia e metafora e paradigma di quanto realmente succede in noi e intorno a noi” come ha scritto la regista nel suo saggio “Riflessioni a mano libera sul ruolo del documentarista”. La cifra stilistica della Mangini, lo scoprire e il denunciare, è già presente nei suoi primi affascinanti cortometraggi Ignoti alla città e La canta delle Marane. Dopo la prima documentazione sulle donne e l’antico rituale del pianto funebre in lingua grika del Salento in Stendalì e il film di montaggio All’armi siam fascisti diretto insieme a Lino Del Fra e Lino Miccichè, il desiderio della Mangini di denuncia è inarrestabile. Infatti Essere donne non esaudì le aspettative delle aziende che le avevano permesso di intervistare le operaie nelle loro fabbriche, né quelle di chi lo aveva commissionato. Come ha successivamente scritto la regista: “La fabbrica è un feudo privatissimo e anche un luogo incontaminato dove non sono entrati né cinema, né televisione, l’accesso è per i cinegiornali che si fermano davanti ai nastri inaugurali tagliati da sua eccellenza o da sua eminenza […]”. La vita del film venne quindi interrotta bruscamente quando lo esclusero dalla programmazione in sala nonostante avesse ottenuto, da Joris Ivens, Paul Rotha e John Grierson, il Premio speciale della giuria al Festival del documentario di Lipsia.
Come quasi tutta la filmografia della Mangini Essere donne è breve e nella sintesi la regista riesce, grazie al proprio sguardo incessante, a dar voce, anche dopo più di cinquant’anni, a milioni di donne, alle lavoratrici che vogliono difendere il loro lavoro, a quelle che temono i licenziamenti o il taglio dei tempi nelle catene di montaggio e a quelle che partecipano alle lotte contro lo sfruttamento nelle campagne e nelle fabbriche.