Si può essere eroi, se travolti dal logorio della vita moderna? Certamente, e ancor più se si è lavandaie immigrate cinesi di mezz'età, sull'orlo della bancarotta, in procinto di venir abbandonate dal marito e perseguitate dal fisco USA. Così suggeriscono, col consueto amore per lo spiazzamento e la dimostrazione per assurdo, i Daniels (dal nome di battesimo di entrambi, Daniel Kwan e Daniel Scheinert, e già questo fa capire i tipi) in Everything Everywhere All at Once, ad oggi il più grande successo della fiorentissima casa di produzione A24.
E così, come in ogni grande racconto epico, nel quale l'agnizione dell'eroe arriva con struggimento e incredulità dei propri poteri, Evelyn scopre un giorno all'ufficio delle tasse che la versione di sé che conosce è solo una delle infinite possibili (la peggiore, ohibò): esiste infatti una sterminata ragnatela di universi coesistenti, uno per ogni scelta di vita compiuta da ogni persona. Scopre anche che in altri mondi le sue passioni hanno prodotto Evelyn realizzate e di successo, e non solo ricevute di spese da cercare invano di detrarre fiscalmente, eppure è lei e solo lei che può salvare tutti quanti da una minaccia di distruzione.
Il multiverso è una della grandi ossessioni della cinematografia occidentale contemporanea, spia sia di difficoltà che di desiderio: difficoltà di dare una direzione alle nostre vite nella miriade di stimoli e possibilità che ci si ergono innanzi, desiderio di poter essere altro da noi stessi in una società tardo-capitalista in cui le ricompense e le soddisfazioni promesse si assottigliano, attribuendone comunque la colpa a manchevolezze caratteriali degli individui (e non è un caso che qui il grande nemico/non nemico abbia a che fare col gap generazionale).
I Daniels portano in scena la loro declinazione di multiverso con l'ironia e la bizzarria che conosciamo loro da Swiss Army Man - Un amico multiuso: il male supremo si consustanzia in un gigantesco bagel, esistono mondi dove le persone hanno hot-dog al posto delle dita e – felice trovata che apre il campo a molte altre – per saltare dal proprio universo a un altro lontanissimo occorre fare la cosa più improbabile e insensata le circostanze consentano. Ne viene fuori una sorta di distillato di umorismo da nerd/geek, come se fossimo ancora alle scuole medie e stessimo assistendo alle battute più volutamente cretine degli intelligentoni della classe.
Così come ne esce fuori la possibilità di spalancare abissi di cinefilia: se anche recentemente in Doctor Strange nel Multiverso della Follia abbiamo visto attraversare universi in maniera vorticosa e già Thor – Love and Thunder porta il sincretismo culturale “pop” a livelli parossistici, i Daniels ci fanno assaporare mondi dove si interlacciano non solo visivamente ma narrativamente Wong Kar-wai e il Michael Haneke di Funny Games, 2001: Odissea nello spazio e Ratatouille. L'utilizzo nei ruoli principali di Michelle Yeoh, una superstar del cinema d'azione, di Ke Huy Quan, il bambino di Indiana Jones e il tempio maledetto e I Goonies, e di Jamie Lee Curtis, come l'avrebbe potuta immaginare solo Wes Anderson, è funzionale agli stessi intenti.
Non ci si deve preoccupare come spettatori di capire ogni cosa, o domandarsi se tutto torni perfettamente secondo la logica (parola abolita): basta stare agli assiomi fondamentali della storia e lasciarsi amabilmente frullare le sinapsi. È tutto molto divertente per almeno una prima parte abbondante della pellicola, poi, quando la bizzarria comincia a ripetersi e a tentare di rilanciare sempre più in alto per continuare a sorprendere, il gioco mostra la corda e rischia persino di annoiare.
Il finale vuole essere il più classico e conciliatorio dei possibili, dunque Everything Everywhere All at Once a un certo punto tende a calmarsi, a normalizzarsi, e a trovare la morale. Anzi plurime morali: che è possibile vedere l'abisso della propria marginalità nel mondo e comunque trovare un senso all'esistenza, che ciò che conta davvero è curare i rapporti coi nostri cari e la gentilezza è un valore, che chi fa male agli altri ha sicuramente subito un torto in passato. Nulla di illuminante ma tutto legittimo. Forse la suggestione più intrigante però è che per sviluppare se stessi non occorrano serietà e impegno, ma imprevisto e insensatezza.