L’esordio cinematografico del ragionier Ugo Fantozzi, fortunata e geniale maschera letteraria creata da Paolo Villaggio, avviene nel 1975 anno cruciale per la commedia all’italiana, inquanto la purezza adamantina del genere legato ai vizi e alle mostruosità dell’italiano medio all’interno del boom economico, si era già frantumata in diverse schegge, tra commedie sexy, decamerotici, tragicommedie popolari (Straziami ma di baci saziami et similia) e allegorie grottesche (da Marco Ferreri in giù). La nostra commedia annaspa nelle spire di una società sempre più preda di stragi terroristiche e cerca nuove strade, nuove vie, nuove forme e linguaggi per raccontarsi.

Nel 1975 escono Amici miei di Mario Monicelli, Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller e La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone di Pupi Avati, tre opere in cui il linguaggio della commedia si congela e spinge verso la tragedia esistenziale, l’umorismo si fa plumbeo e intriso di irredimibile tristezza.

In questo clima di cambiamento esce anche Fantozzi diretto da Luciano Salce e interpretato dal suo autore letterario Paolo Villaggio. Già da come entra in scena il personaggio è facile comprendere l’ascendenza che ha con la grande letteratura tragica di Kafka, Gogol' e Dostoevskij. Ugo Fantozzi esce da un buco fatto in un muro (era stato murato per errore nei bagni dell’azienda in cui lavora come impiegato) come un topo sbuca dalla propria tana, rattrappito, malconcio e grigiovestito e come un sorcio viene accolto con una tremenda martellata sul cranio da un operaio che stava aprendo il varco nel muro per liberarlo.

L’ingresso in scena è emblematico per descrivere questa figura tragica e ridicola al tempo stesso e Paolo Villaggio, durante un’intervista rilasciata alla televisione svizzera dopo l’uscita del film, sottolinea l’importanza del tragico come parola chiave per leggere e interpretare la maschera di Fantozzi. Sempre nella medesima intervista, Villaggio sottolinea l’enorme e inaspettato successo prima dei romanzi e a seguire del film, raggiunto grazie alla precisa coincidenza tra personaggio e momento storico, Fantozzi diventa così lo specchio in cui il pubblico può riflettersi.

Il tragicomico impiegato è il capro espiatorio di una società ridicolmente alienata e travolta dall’ondata consumistica, quel consumismo preconizzato da Pier Paolo Pasolini che ha portato la collettività a nutrirsi dei rifiuti che produce (Salò docet).

Fantozzi inizialmente doveva essere diretto da Salvatore Samperi, il quale aveva già lavorato con Villaggio nella commedia Beati i ricchi, ma alla fine la scelta cade su Luciano Salce, autore e interprete di spicco della commedia del boom economico, che ha siglato imprescindibili capisaldi del filone come Il federale, La voglia matta e La cuccagna e che solamente un anno prima aveva diretto Paolo Villaggio nel crudelissimo Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno.

Salce con Fantozzi si muove in una doppia direzione stilistica, se da un lato abbraccia la satira di costume, attraverso una descrizione salace della società italiana post-boom (la classe impiegatizia, la classe dirigente, le istituzioni), dall’altro si immerge in una dimensione metafisica, surreale e fumettistica, fortemente legata alle iperboli presenti nel modello letterario.

Una delle peculiarità di Fantozzi è proprio l’utilizzo dell’iperbole sia visiva che narrativa, esasperando così la figura del travet e facendone al contempo un personaggio tristemente umano e comicamente fumettistico, mescolandovi al suo interno figure come quelle dello schlemiel ebraico e dell’augusto circense. Il mezzemaniche sfruttato e sfortunato diviene così protagonista di una serie di bozzetti in cui resta spesso fisicamente vittima di disgrazie, uscendone praticamente illeso come le figure animate di Tex Avery e i comici dello slapstick, mentre una voce over (Paolo Villaggio stesso) introduce e chiosa con aggettivi iperbolici (agghiacciante, terrificante..) le diverse avventure.

La struttura narrativa di Fantozzi non è propriamente episodica, ma si presenta come una concatenazione di bozzetti quotidiani a cui fanno da collante ambienti (gli uffici della Megaditta, l’interno domestico) e personaggi (la moglie Pina, la figlia Mariangela, i colleghi Silvani, Filini e Calboni) che si ripetono puntualmente e proprio come i comici del muto il ragionier Ugo è di volta in volta protagonista di diverse situazioni: Fantozzi in campeggio, Fantozzi al ristorante giapponese, Fantozzi e la partita di tennis, Fantozzi al veglione di Capodanno, riprendendo la scansione narrativa dei romanzi.

Dopo il dittico di Salce, fortemente legato sia alla commedia di costume che alle iperboli letterarie di Villaggio, nei successivi capitoli questa dicotomia scompare, cambiano le mode, i modelli sociali e politici e tra gli anni Ottanta e Novanta Fantozzi diventa una figura scollata da un preciso contesto sociale, replicandosi all’infinito in un eterno ritorno di umorismo cartoonesco e sadomasochistico.

Il film, sceneggiato da Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Luciano Salce e Paolo Villaggio, riesce a radiografare in fieri e in maniera critico-analitica quel momento storico-culturale, trasformando cliché preesistenti all’interno della commedia all’italiana, come quello impiegatizio, in qualcosa di diverso. Ugo Fantozzi è la versione iperrealista del mite e meschino impiegato di Nino Manfredi (L’impiegato e poi sulla falsariga I complessi) e procede il suo assurdo e kafkiano calvario esistenziale saltando da una situazione ad un’altra, da una stagione a quella successiva o a quella precedente (un po' come il Marcovaldo di Calvino) e nella famigerata sequenza del capodanno, richiama in chiave parodica e grottesca quella contenuta ne Il posto di Ermanno Olmi.

Fantozzi funziona quasi come una sorta di critofilm, atto a rileggere, comprendere e attualizzare il processo creativo della commedia all’italiana, allargandosi nel secondo capitolo anche al cinema internazionale d’essai. Alla sua prima uscita in sala, il film non fu accolto molto positivamente dalla critica e dalla stampa, venendo liquidato dai più come un’opera slegata, eccessivamente goliardica e di natura frammentaria. Leo Pestelli fu tra le prime voci della critica a coglierne dei valori, sottolineando come "la regia renda adeguatamente il masochismo del protagonista, affermando inoltre che le reazioni ripetitive e prevedibili di Fantozzi sono rese sempre divertenti dal variare delle situazioni" (Leo Pestelli, Le catastrofi di Fantozzi, in La Stampa, 23 aprile 1975, p. 7).

A distanza di lustri, Fantozzi è diventato un autentico cult movie, ma non solamente per i catecumeni che mandano a memoria gags e battute, ma anche per la critica quotidianista e per quella accademica. In occasione della proiezione alla Festa del Cinema di Roma nel 2015 per i 40 anni del film, Raffaele Meale lo ha definito "uno dei capolavori del cinema italiano degli anni settanta che fa ancora vacillare le logiche di potere" (Quinlan.it, 30 settembre 2015), mentre il docente Giacomo Manzoli, pubblica nel 2013 il volume Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976).

Ecco l’importanza capitale che oggi ha assunto il film all’interno del dibattito culturale, sociale, mediatico e accademico, Fantozzi resta oltre che una pietra miliare della cinematografia italiana, anche una svolta linguistica ed estetica irripetibile all’interno della nostra cultura popolare.