Green Book e Se la strada potesse parlare, due modi simili e al contempo profondamente diversi di vivere e raccontare la questione afroamericana, concezioni entrambe radicate nel contesto nazionale, riflessi di specifiche influenze culturali, storiche e sociali i cui retaggi sono da ricercare nel passato comune della nazione e nel difficile rapporto da sempre intercorso tra bianchi e neri.

Guardando il film di Peter Farrelly e quello di Barry Jenkins, anche lo spettatore meno addentro alla questione interrazziale statunitense non può non scorgere il differente stile che caratterizza le pellicole, entrambe rivolte al passato pur parlando del presente: la prima è una commedia sapientemente dosata tra humour e dramma, la seconda un mélo intimista e riflessivo. Da una parte un approccio umoristico e politicamente corretto, capace di ridere di un passato dato ormai per superato, dall’altra uno malinconico e indignato, cosciente che quel medesimo tempo si ripete ancora oggi. Sono le due strutture che segnano inesorabilmente le visioni delle parti in causa, riflessi opposti della medesima immagine che l’America ha e dà di sé, dentro e fuori l’industria cinematografica, un ritratto che richiede una lettura accurata dei dettagli e delle loro molteplici sfumature.

Difatti, scegliendo di portare sullo schermo la storia vera del pianista afroamericano Don Shirley in turné negli stati segregazionisti del Sud scortato dall’autista e guardia del corpo di origini italiane Tony “Lip” Vallelonga, Farrelly ribalta l’assioma tradizionale bianco/nero alla A spasso con Daisy, ma mantiene inalterato l’impianto narrativo di buddy movies progressisti come Uomo bianco, tu vivrai!. Se nel film di Mankiewicz il medico nero interpretato da Sidney Poitier doveva vincere il disprezzo razzista del personaggio di Richard Widmark per poterlo operare e salvargli la vita, in quello di Farrelly Mahershala Ali riesce a far superare le ritrosie nei confronti degli afroamericani al comprimario Viggo Mortensen, trasformandolo in un uomo migliore meno condizionato da atteggiamenti rozzi e violenti. È quindi ancora una volta il nero che deve mettersi nei panni del bianco, comprendere i suoi atteggiamenti per poterli scardinare, in una visione alquanto inquietante e retrò del concetto di integrazione. Non sorprende allora che il titolo del film resti solo un riferimento alla nota guida diffusa tra gli afroamericani in quegli anni, una sorta di vademecum con indicazioni su strade, locali, alberghi, pompe di benzina riservate loro: il racconto infatti è affrontato dal solo punto di vista di Vallelonga. È lui il vero eroe, quello che si mette in gioco vincendo, cambiando, mentre Shirley in fondo resta il medesimo, talmente colto e raffinato da sembrare sempre fuori luogo, troppo nero per piacere ai bianchi e troppo bianco per piacere ai neri, espressione di un disagio tutto black ancora oggi attuale. Solo per merito di Lip – ennesimo magnanimo e protettivo “padre bianco” hollywoodiano, angelo custode della controparte nera tormentata da un oscuro passato e un’omosessualità repressa – Don avrà occasione di uscire dalla torre letteralmente d’avorio e confrontarsi con la gente comune, bianca (il pollo fritto mangiato in auto) e nera (il rhythm ‘n’ blues suonato nel locale l’ultima notte prima di tornare a New York). Un’elegia dello spirito popolare a stelle e strisce dove cultura alta e bassa vanno a braccetto, ma è la seconda ad avere sempre la meglio (le lettere scritte a quattro mani con Tony per la moglie di lui).

La scelta di Jenkins è diversa. Regista più di altri votato alla decostruzione dell’immaginario cinematografico connesso agli afroamericani (come dimostrato in Medicine for Melancholy e Moonlight), con Se la strada potesse parlare lavora sull’immagine del ghetto, scostandosi dalla negativa iconografia della blaxploitation a base di droga, prostituzione e violenza in favore di un ritratto più equilibrato e realistico. Con i suoi protagonisti che travalicano la color line nazionale, Jenkins dà dignità e profondità a una difficoltosa storia d’amore che si fa modello universale adattabile a ogni contesto, locale e non. Lo spessore emotivo di Fonny e Tish eleva, come raramente accade sullo schermo, i neri a figure a tutto tondo, capaci di sentimenti all’altezza dei più elevati modelli tragici bianchi e mossi da una speranza nel futuro tutta giovanile, non dettata da ingenuo ottimismo ma radicata nella piena consapevolezza di cosa voglia dire essere afro-americani, ovvero guardare al sogno statunitense e trovarvisi regolarmente esclusi. Per riuscire in questo, il regista si affida al grande cantore dell’orgoglio e della bellezza nera James Baldwin, trasponendone fedelmente uno dei suoi romanzi più famosi, aggiungendovi solo un epilogo che trasmetta maggior fiducia a un finale altrimenti troppo cupo.

È chiaro che la caratterizzazione un po’ forzata dei comprimari e l’aderenza quasi didascalica al testo originale imperniato sulle tribolazioni della giovane coppia, lui in carcere per un’accusa di stupro mai commesso, lei ragazza-madre in attesa del loro primogenito, possa far storcere il naso a un pubblico ormai avvezzo a racconti ben più complessi e articolati. Ma inserendo il film nel contesto più ampio del cinema afroamericano contemporaneo che vede in Spike Lee il suo apripista, pare evidente che l’intento di Jenkins sia quello di parlare non tanto a chi già conosce il romanzo, bensì a un pubblico che potrebbe essere i due protagonisti, avere il medesimo patrimonio esperienziale se non vivere sulla propria pelle una situazione analoga. Ecco allora che quello spaccato sociale diventa il terreno comune di confronto su una questione mai risolta, verso la quale si sente oggi l’urgenza d’intervento, se non da parte delle istituzioni (nel film la polizia razzista o l’avvocato bianco incapace di scagionare Fonny) almeno dalle comunità coinvolte (i famigliari che si adoperano per i protagonisti), ancora una volta estremi da cui partire per un avvicinamento collaborativo e costruttivo.