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Il linguaggio dei nostri sogni. James Baldwin e il cinema

L’uscita nelle sale di Se la strada potesse parlare è l’opportunità per apprezzare il contributo intellettuale di James Baldwin, dal cui omonimo romanzo il film è tratto, non solo come fonte di ispirazione per narrazioni cinematografiche ma anche come critico e teorico di cinema. In The Devil Finds Work (1976), di cui Fandango Playground ha recentemente pubblicato in italiano il primo saggio Congo Square, James Baldwin intreccia la narrazione autobiografica del suo incontro con il cinema con un’analisi critica militante e ancora attuale che evidenzia i pregiudizi razziali e di genere della cultura cinematografica dominante americana. Nei tre contributi raccolti nel volume, lo scrittore afroamericano spazia da Nascita di una nazione (1915), un testo razzista fondamentale per la storia del cinema e l’identità nazionale americana, a L’esorcista (1973), il cui ritratto del male Baldwin trova, nella sua banalità, la componente più terrificante e inquietante del film.

Farrelly, Jenkins e la questione afroamericana

Guardando il film di Peter Farrelly e quello di Barry Jenkins, anche lo spettatore meno addentro alla questione interrazziale statunitense non può non scorgere il differente stile che caratterizza le pellicole, entrambe rivolte al passato pur parlando del presente: la prima è una commedia sapientemente dosata tra humor e dramma, la seconda un melò intimista e riflessivo. Da una parte un approccio umoristico e politicamente corretto, capace di ridere di un passato dato ormai per superato, dall’altra uno malinconico e indignato, cosciente che quel medesimo tempo si ripete ancora oggi. Sono le due strutture che segnano inesorabilmente le visioni delle parti in causa, riflessi opposti della medesima immagine che l’America ha e dà di sé, dentro e fuori l’industria cinematografica, un ritratto che richiede una lettura accurata dei dettagli e delle loro molteplici sfumature.

Politica ed estetica della strada: “Se la strada potesse parlare”

Le modifiche di Jenkins al romanzo di Baldwin sono limitate ma significative e rientrano nel progetto del regista, già chiaro nel precedente pluripremiato Moonlight (2016): costruire narrazioni affermative della comunità afroamericana con un’agenda politica di classe, razza e genere progressista, senza trascurare però un’ideologia visiva che trasfiguri anche i dettagli più sgradevoli in una dimensione estetica. Da qui, per esempio, la scelta di alternare la narrazione filmica con l’inserimento di sequenze di fotografie in bianco e nero. Fin dalla locandina, in cui il paesaggio urbano costituisce una parte dei volti innamorati di Fonny e Tish, il film, a differenza del romanzo, rappresenta Harlem non come un contesto ostile ma idealizzato, colto con ambienti, luci e posture che ricordano le stilizzazioni impressionistiche di Wong Kar-wai in In the mood for love (2000) e della tradizione melodrammatica americana da Douglas Sirk a Todd Haynes.