Le impressioni più importanti su Fascista — il documentario di Nico Naldini, a lungo creduto scomparso e oggi trasposto in una nuovissima versione digitale — restano ancora oggi quelle scritte dal cugino Pier Paolo Pasolini. "Alla fine, e proprio filmicamente, il film è un film sul rapporto tra un Capo e il suo Popolo. […] Rapporto inaudito, assurdo, manifestamente arrangiato, ritagliato e mistificato, ridicolo, bieco: ma in qualche modo, quello lì, proprio quello lì, come compare nella realtà fisica dei materiali del film. Materiali che si accumulano, e infine esplodono in una espressività abnorme e involontaria. È stato un terribile gioco, e il film di Naldini gioca con questo gioco. Per questo è un film bellissimo. Ma anche pericoloso, perché sono i destinatari in buona fede che accettano il gioco. Quelli in cattiva fede fanno il ‘loro’ gioco, cioè, come si sa, non sanno giocare. Il fascismo è un tetro comportamento coatto".
Fascista di Naldini è un documento importantissimo perché sceglie di concentrarsi su quello che forse è il punto di discussione più rilevante quando si parla di fascismo: il consenso. E la forza della narrazione di Naldini risiede nell’utilizzare proprio l’aiutante “magico” del regime per smascherare — o meglio, di-spiegare — gli enigmi dell’approvazione e i processi di visibilità nazionale e internazionale verso cui il fascismo ambì nel suo periodo di massima ascesa. Composto interamente da filmati dell’Istituto LUCE, questo film “di montaggio” fu realizzato nel 1974 con un unico intento: svelare allo spettatore il rapporto tra il dittatore e il suo popolo.
Non si tratta di raccontare didascalicamente il Ventennio o di imbastire — prendendo in prestito le parole di Pasolini — una “retorica antifascista” che miri alla ridicolizzazione, ma di rappresentare il fascismo attraverso i materiali e gli strumenti elaborati dai fascisti stessi. Il vero e il falso parlano all’unisono e non c’è bisogno che Naldini indirizzi il percorso narrativo verso la decostruzione del mito che fu (e che, ahimè, ancora oggi sopravvive): quel che conta è far parlare le strategie, dialogiche ed estetiche, in quel “capolavoro di recitazione involontaria” — ancora Pasolini — che fu il culto di Mussolini.
La tendenza del regime fu, neanche troppo paradossalmente, quella di non volersi servire del cinema di finzione come un mezzo privilegiato di propaganda. Se i cinegiornali LUCE ebbero un compito preciso legato alla manipolazione narrativa delle cronache, le opere finzionali riuscirono a godere di una sorta di extraterritorialità e i film apologetici risultarono più spesso frutto di scelte registiche e produttive che di orchestrazioni dettate dall’alto. L’idea del fascismo fu, di base, piuttosto fedele al principio che se il cinema è arte, l’arte non può essere asservita al potere.
Al contrario della Germania nazista, il governo fascista si rivelò quindi più tollerante verso gli sceneggiatori e i cineasti ma, intendiamoci, nei limiti di un’attività artistica che non risultasse denigratoria o dichiaratamente sovversiva (in soldoni: esplicitamente o non troppo implicitamente antifascista). Questo aspetto, all’apparenza irrilevante rispetto al film di Naldini, risulta fondamentale per inquadrare il ruolo dell’Istituto LUCE nelle dinamiche propagandistiche del regime. Risuonano astute (e attuali) le parole dell’allora ministro Giuseppe Bottai — “Il pubblico si annoia quando il cinema lo vuole educare” — e se, da una parte, la rinascita della Cines e la conseguente fondazione di Cinecittà sancirono la superiorità di una legittimazione artistica rispetto a manifeste manovre politiche, i cinegiornali conservarono quelle finalità seduttive necessarie a mantenere l’assenso alto e costante.
Di fatto, Fascista di Naldini non fa che alternare la voce di Giorgio Bassani (già “narratore in poesia” de La rabbia di Pasolini) a quella di Guido Notari, l’inconfondibile “voce del padrone” che contraddistinse enfaticamente i cinegiornali. E la voce di Bassani diventa l’unico contrappunto critico offerto da Naldini, unico strumento per riordinare i materiali con un minimo di distacco storico e post-bellico, mentre il cinegiornale celebra l’incredibile parabola attoriale di Mussolini, l’istrione per eccellenza. Aviatore, marinaio, trebbiatore, danzatore, regista: per vent’anni Mussolini è stato Divo, più che Duce, capace di dominare l’immaginazione degli italiani e di rivestire i ruoli (e i costumi) più disparati. E se il fascismo non volle esercitare un invadente controllo sui film di finzione fu anche perché assunse la direzione di tutta l’attività “educativa” e informativa, laddove la cinematografia si rivelò davvero la sua arma più forte.
Il progetto di Naldini, parecchio contestato al tempo della sua uscita, ripercorre rigorosamente la costruzione di quello che ancora oggi resta un vero e proprio monumento per immagini. Perché questo fu il cinegiornale: un monumento cinematografico del quale Mussolini restò il vero regista, coi piedi ben piantati al centro della mise-en-scène, e la folla il protagonista inconsapevole che ne incorniciò la figura e legittimò il suo ruolo di padrone. Fascista di Nico Naldini resta un lavoro inestimabile, da riscoprire e diffondere il più possibile, per offrire una consapevolezza nuova e senza scorciatoie di sorta. Nella speranza indomabile — e un po’ ingenua — di smascherare le manipolazioni di domani.