Non può essere un caso che i film più recenti sul tema dell’atrocità nazista esplorino con intensità sempre maggiore il punto di vista del carnefice e del complice. Si pensi ai lavori documentari di Vanessa Lapa, L’uomo per bene - Le lettere segrete di Heinrich Himmler e il nuovissimo Speer Goes to Hollywood, ma anche a Jojo Rabbit, un film che — nella sua eccentrica (e un po’ maldestra) finzione — cerca di restituire uno sguardo bambino sulla cosiddetta “coercizione di Stato”. È come se i registi contemporanei fossero pienamente consapevoli degli ostacoli riguardanti la ri-attualizzazione della memoria. Non solo: se pensiamo ad Austerlitz, il documentario di Sergei Losnitza sui comportamenti di indifferenza e offesa all’interno del campo di Sachsenhausen, riscontriamo la progressiva difficoltà a ricongiungersi con la dimensione tragica del ricordo. In questo scenario, dove appare davvero arduo riconoscere i requisiti e i patti morali necessari a colmare una distanza storica e passionale, Final Account diventa la conferma di un’attitudine necessaria: cambiare prospettiva.
Deceduto appena due mesi fa, Luke Holland ci lascia con un lavoro durato dieci anni, frutto di trecento interviste a chi fu complice irretito e convinto fautore della Germania nazista. Venezia 77 si trova dunque a mostrare in anteprima uno dei documentari più preziosi per comprendere il processo di “normalizzazione” della barbarie, passata e presente. Non si tratta solo del lavoro monumentale che riscontriamo dietro le quinte, ma del fatto che abbiamo sotto gli occhi il primo film interamente incentrato sulle testimonianze dei complici. Sia chiaro: non i nomi ricorrenti sui libri di Storia, ma quelli di cittadini tedeschi ordinari. Sono uomini e donne comuni, all’epoca poco più che bambini, testimoni silenziosi e accondiscendenti. Siamo all’interno dell’orrore, abbiamo la possibilità di cogliere la banalità del male nella sua essenza, ma anche la sua complessità. Le vie della sua legittimazione si palesano nelle rievocazioni di chi ha vestito la divisa delle Waffen-SS e delle Totenkopfverbände, di chi ricorda ancora le parole delle canzoni di propaganda. E se c’è chi rivendica categoricamente la propria condizione di estraneità alla “soluzione finale”, c’è chi afferma laconico che “chi dice di non sapere, mente.”
Testimonianze viziate? Certo. Ma se la storia è sempre e irrimediabilmente riscrittura, queste diventano conferma più che limpida della manipolazione seduttiva che risiede alla base della prevaricazione sociale. Tutti, pentiti e non, sembrano dichiarare che il loro unico desiderio fosse far parte di “un’élite”. Le marce, le divise, i tesserini, persino le canzoni razziste cancellano l’idea diffusa dell’Olocausto come un incidente irripetibile. Sono simulacri di un consenso ampio e subdolo, di una disumanità regolarizzata.
L’arguzia di Luke Holland sta proprio nel trattare gli ex-complici come ciò che rappresentano: persone ordinarie. Non manipola la conversazione, non li forza a dire ciò che non vogliono. Davanti alla videocamera si percepisce un senso di “rilascio”, nel bene e nel male. E se questo aspetto rappresenta troppo spesso una giustificazione per i protagonisti, per gli spettatori il quadro diventa chiarissimo. L’efficacia della sua visione emerge con violenza nel confronto tra Hans Werk, ex-SS che servì a Buchenwald, e un gruppo di studenti durante un incontro a Wannsee, dove nel 1942 furono annunciati i piani per la “soluzione finale”. Inaspettatamente, alcuni degli studenti non risultano persuasi dalle parole sofferte di Werk. Alcuni sembrano addirittura delusi dal fatto che mostri vergogna per i suoi antichi ideali sulla patria. È proprio il racconto di Werk sulle motivazioni che lo condussero a fare carriera nelle SS a creare un cortocircuito. Se entrare nelle SS per un ragazzo rappresentava “una cosa normale”, quei giovani si chiedono “perché provarne vergogna?” Lo scontro generazionale, di un’intensità senza pari, palesa un problema oggi più pulsante che mai: come maneggiare la memoria? Come preservarla?