“Per me il cinema è luce, non può esistere senza luce. Rotunno rappresenta la luce, la salvezza del film”. Sono queste le parole con cui Federico Fellini descriveva l’apparizione salvifica di Peppino Rotunno in uno dei sogni fatto durante la travagliata lavorazione di La città delle donne. Nel sogno Fellini si trova a Venezia, sotto di lui un canale, alla sinistra un ponte e davanti a sé Rotunno. Rotunno vuole raggiungerlo, ma invece di attraversare il ponte, spicca un balzo col rischio di cadere nel canale. Poi, quando Fellini è sul punto di cadere nel canale, emerge un sottomarino che prende a bordo Rotunno portandolo dal regista. Si abbracciano con la gioia di due naufraghi o di due vecchi compagni di scuola che non si vedono da anni. Il significato del sogno era chiaro per Federico: “Rotunno rappresenta la luce, la salvezza”, “Che cos’è la luce per il cinema? Se il cinema è immagine, la luce è evidentemente il fattore essenziale. Nel cinema la luce è idea, sentimento, colore, profondità, atmosfera, stile, racconto, espressione poetica”. Giuseppe Rotunno per il cinema è stato esattamente questo.

Classe 1923, Rotunno arrivò alla direzione della fotografia con Le notti bianche (1956) di Visconti dopo 17 anni di esperienze e formazione nel campo della fotografia statica e in movimento: la prima cominciò in camera oscura nel laboratorio fotografico all’interno di Cinecittà, diretto da Arturo Bragaglia. Nel reparto operatori fece la gavetta, passando in tutti i ruoli da aiuto operatore a operatore alla macchina. Allo scoppio della Grande Guerra, a soli vent’anni, fu chiamato alle armi e iniziò la sua carriera di cineoperatore girando reportage di guerra: come capo del nucleo cinematografisti gli fu affidato il compito di inviato al fronte per foto (dallo scatto alla stampa) e riprese da inviare al Comando generale dello Stato Maggiore del Regio Esercito.

Dopo l’8 settembre del 1943 fu catturato in Grecia e deportato in Germania nei campi di concentramento del Westfalen e poi liberato l’11 aprile del 1945 dai soldati americani. Tornato in Italia, tra mille difficoltà, riprese il suo lavoro nel cinema, prima come aiuto operatore poi operatore alla macchina. Di quel periodo Rotunno ricordava: “Presi coscienza del cambiamento di qualità del nostro cinema, dimenticando il cinema di regime imposto per tanti anni. I direttori della fotografia italiani ebbero un ruolo importantissimo nel passaggio evolutivo dal cinema di regime, il cinema dei telefoni bianchi, a quello neorealista, perché seppero trasformare i difetti in qualità, inventando uno stile fotografico di efficace bellezza. Io mi formai in quegli anni dal ‘45 al ‘55, il ‘56 fu l’anno del mio debutto in qualità di direttore della fotografia come unico responsabile in un film importante, e poi ho potuto girare il mio primo film a colori e in cinemascope: da allora continuai la sperimentazione con ogni mezzo di ripresa moderno senza mai dimenticare le esigenze delle storie”.

Nelle testimonianze rilasciate per i quaderni dell’AIC (Associazione Italiana Autori della Fotografia Cinematografica), del cui consiglio direttivo fece parte a lungo, Rotunno ricordava che era entrato nel cinema quasi per caso “anche se fin da ragazzo ero affascinato dalle fotografie esposte nelle vetrine di un negozio chiamato ‘Foto arte Carnevali’ situato vicino alla mia abitazione. Il cinema mi si presentò come una opportunità di lavoro. Morto mio padre, come in ogni famiglia che si rispetti, i figli dovevano guadagnarsi da vivere”. Man mano che la professionalità cresceva con l’esperienza, Rotunno si convinse sempre più che “la fotografia dovesse fare da collante all’operato di tutti gli autori per seguire lo stesso percorso filologico del racconto imposto dalla sceneggiatura”. Se lo sceneggiatore era il primo collaboratore del regista nella fase realizzativa del copione, il direttore della fotografia lo diventava sul set durante la fabbrica dell’opera cinematografica. Per questo tutte le volte che poteva Giuseppe assisteva alle sedute di sceneggiatura, che fossero ufficiali o in pizzeria.

E ascoltava le opinioni degli autori con la massima attenzione per cercare di entrare al più presto in simbiosi col regista e partorire il progetto di luce necessario a realizzare le atmosfere atte a valorizzare la storia nel modo più efficace. Per dare più informazioni alla regia e alla sceneggiatura, durante i sopralluoghi per la ricerca dell’ambientazione del film, scattava fotografie dei luoghi, dei locali, delle insegne, che rappresentassero l’itinerario visivo ideale del racconto, ne stampava una serie e le consegnava al regista e agli sceneggiatori, scenografi, costumisti, arredatori, perché diceva “le foto aiutano a creare una base visiva ideale con un minimo comun denominatore valido per tutti”. Il suo storyboard fotografico fu particolarmente utile per il film I compagni di Monicelli, la cui ambientazione a Torino fu molto sofferta e proibitiva per ragioni economiche, così l’unica soluzione fu di girare a Torino solo le scene indispensabili, storicamente designate dalla sceneggiatura (primi tentativi di scioperi falliti). Tutte le scene più costose furono spostate in località più economiche tra Cuneo (scene in città), Roma (scene interne) e Croazia (scene di massa). Spezzettare le riprese delle stesse scene in località diverse, lontane tra loro centinaia di chilometri e settimane di tempo, rese la costruzione del mosaico filmico più faticosa, complicata, in particolare per la fotografia, che doveva ritrovare la stessa densità e qualità della luce. Certamente l'efficacia della sceneggiatura e lo storyboard fotografico furono di grandissimo aiuto alla ricostruzione ambientale di scene e atmosfere.

Dunque per Rotunno era fondamentale il rapporto con la sceneggiatura: “mentre leggo le sceneggiature, le parole si trasformano simultaneamente in immagini proiettate sul grande schermo, materializzate dalla luce e pronte per essere valutate; il contatto con la sceneggiatura fa da tramite nel dialogo con il regista e permette di agire con più consapevolezza, aiuta ad evitare trasgressioni estetiche nella realizzazione della fotografia. Conoscere a fondo la sceneggiatura, specie nei film con molti ambienti costruiti in più teatri di posa o in più luoghi, permette al direttore della fotografia di precedere il regista nell'illuminazione delle scene e di essere pronto a girare senza perdere tempo”. Registi come Fellini che amavano sentirsi liberi di cambiare l’impostazione delle riprese fino all’ultimo momento, riservandosi di migliorare il loro lavoro finché non veniva fermato su pellicola.

Del lavoro con Fellini Rotunno diceva: “il nostro rapporto era regolato da poche parole grazie alla conoscenza della sceneggiatura e delle sue intenzioni che mi permettevano di intendere il ‘pronto a girare’ con un ‘pronto a cambiare’. A volte, soprattutto quando si girava di notte in esterni riuscivo ad anticipare le sue mosse e iniziavo a ribaltare il campo, lui sentendosi scoperto mi diceva ‘Peppino, aspetta, lasciami pensare’ ed io ‘Federico mentre pensi organizzo il mio lavoro per la prossima inquadratura, non preoccuparti di me’. Il più delle volte il mio intuito andava a segno, così lui diventava il regista più felice del mondo, io il direttore della fotografia più soddisfatto”.

Il primo progetto affrontato con Fellini (dopo il primo approccio per 8 ½ non andato in porto a causa di precedenti impegni di Peppino) fu Il viaggio di G. Mastorna, film mai realizzato ma per il quale furono fatti molti sopralluoghi in Germania, alla ricerca di una grande piazza mitteleuropea, che fu poi ricostruita nei terreni di Dinocittà, come tutte le altre scenografie del film. Grazie ai sopralluoghi e alla sceneggiatura furono pronti ad affrontare l’inizio delle riprese con un progetto della fotografia in bianco e nero originale e rischioso, che si era deciso di affrontare dopo una serie di provini pienamente riusciti sotto il profilo fotografico emotivo. “Portando il contrasto dei materiali sensibili a valori estremi, si poteva impressionare sulla pellicola solo parti dell’inquadratura, o quelle in luce o quelle in ombra suggerite dalle nostre esigenze di realizzare due punti di vista diversi del protagonista Mastorna: l’immaginazione (durante il precipitare dell'aereo fino all’impatto col suolo) o la visione (del racconto dopo la morte). Esponendo il materiale sensibile correttamente per la luce (nel nostro caso di altissimo contrasto) le zone in ombra non venivano registrate; esponendo correttamente per le zone in ombra, causa la forte sottoesposizione, le zone in luce non venivano registrate per eccessiva sovraesposizione. Le due situazioni fotografiche diverse causate dall’alto contrasto avrebbero rappresentato i due stati d’animo di Mastorna durante lo svolgersi della storia, senza mai dichiararli apertamente, in un gioco di alternanze luminose con situazioni di luce mediana che agivano da limbo”.

Purtroppo Fellini si ammalò gravemente e non volle o non riuscì mai più a riprendere il progetto. Ma Rotunno ci teneva a precisare che “non era vero che Fellini girasse senza sceneggiatura (come amava vantarsi): se fosse stato possibile per lui che l'aveva bene in mente e ne aveva una copia sempre a disposizione sul set (quella della script girl) non sarebbe stato possibile per noi collaboratori autonomi preparare i nostri progetti di fotografia, scenografia, costumi. Non sarebbe stato possibile realizzare film complessi come i suoi senza sceneggiatura”. In più occasioni Fellini espresse la sua stima per Rotunno con disegni buffi ed affettuosi e anche tessendo l’elogio dell’operatore da lui considerato “il secondo di bordo”. Di lui diceva: “Da quando ho incontrato Peppino, grandissimo direttore delle luci, ho lavorato con lui magnificamente realizzando ben otto film, tra lunghi e meno lunghi. I risultati sul piano dell’espressione fotografica sono stai molto suggestivi. Credo non si potesse far di meglio: vedevo realizzarsi le mie immagini così come mi erano misteriosamente apparse nella fantasia, con una rispondenza che solo una fine sensibilità e una grande sapienza tecnica potevano consentire” (Ciak di Luce, Ed. Enel, 1989).

Come sappiamo, Fellini non fu l’unico grande autore ad impreziosire la filmografia di Rotunno. Insieme a Gallone, Zampa, De Sica, Monicelli, Pietrangeli, Zurlini, Pasolini, Corbucci, Wertmüller e gli americani Kramer, Huston, Nichols, Fosse, a far da padre alla grande carriera artistica di Rotunno fu per primo Visconti. Le notti bianche fu il debutto che lo vide come responsabile unico della fotografia. L’operatore ricordava tale esperienza come “un passo importante nell'evoluzione del suo modo di raccontare storie con la luce”. La fotografia del film è sempre in bilico tra il vero e il falso, realtà e fantasia, cinema e teatro. Ogni atmosfera di luce del film rafforza emotivamente l’altra. Quando Visconti cercò di spiegare a Rotunno il tipo di fotografia che si aspettava per il film si espresse così: “Il film deve sembrare vero, ma quando starà per diventare vero dovrà sembrare finto, e quando starà per diventare finto dovrà sembrare vero”. Così quello che sembrava un gioco di parole divenne un concetto visivo preciso per mezzo della fotografia e quello che non era dichiarato dalla sceneggiatura fu realizzato dalla luce con la quale si ottenne una visione alternante tra cinema e teatro.

Dopo il bianco e nero esemplare di Rocco e i suoi fratelli (1960), e l’uso delle tre cineprese distanti in contemporanea per riprendere in sequenza più parti delle scene, venne il Gattopardo (1963) con l’uso del technicolor e le tre macchine, non solo in esterni, ma anche in interni e in particolare per la scena del ballo. Rotunno ricordava orgoglioso che il film fu elogiato “per omogeneità e qualità del risultato visivo finale” nella recensione del critico d’arte Emilio Cecchi dopo la visione privata del film. Cecchi scrisse che “la bravura con cui Visconti e collaboratori hanno estratto e sintetizzato gli elementi essenziali dal romanzo allo schermo ha conferito al Gattopardo un prestigio tecnico che rimarrà esemplare nella storia del nostro cinema” e che “ i paesaggi, le campagne, i rustici interni nella loro fotografica oggettività sembrano trasfigurati e guardati con gli occhi di un altro tempo, con gli occhi della storia”.

Quello di Rotunno fu così un cinema che ha lasciato un segno nella storia, un cinema “carnale” come lo definiva lui rispetto ad una televisione più “robotica”, un tipo di cinema che non potrà mai essere sostituito da mezzi ancorché più moderni (che si tratti di televisione o media digitali), perché, come piaceva dire a Spielberg, “finché esisterà un solo laboratorio di sviluppo e stampa girerò i miei film su pellicola”, e come sentenziava Rotunno, “la cinematografia rispetto alla televisione è come il vino con l’acqua: si bevono tutti e due ma sono completamente diversi e uno non può sostituire l’altra”.

La luce di Rotunno era una luce capace di raccontare storie e di dare visibilità a tutte le gradazioni emozionali, a ogni stupore della fantasia.