Inizia con un’immagine a pezzi l’ultimo film di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Frammenti di un fotogramma, uno sopra l’altro, accumulati da mani umane. Proprio in questo inizio, tra il restauro e il found footage, è racchiuso lo spirito e la dichiarazione d’intenti di Guerra e pace, ovvero: mettere insieme, costruire senso nell’accostare, tracciare percorsi, creare assonanze e dissonanze, con e sulle immagini.

Come nel precedente Spira mirabilis, in concorso a Venezia nel 2016, in questo film a prevalere è la divisione in storie, luoghi e individui, tra loro lontani e sconosciuti. Se prima il discorso era organizzato per elementi (terra, acqua, aria...) a cui erano legati gesti (scultura, ricerca, creazione di uno strumento...) che si interscambiavano amalgamandosi in un discorso spirituale ed esistenziale, in Guerra e pace tutto è diviso in quattro capitoli: netti, sequenziali e caricati di un forte senso temporale (passato remoto, passato prossimo, presente e futuro), intenti a riflettere sulla guerra ieri e oggi, sulla pace come assenza/conseguenza di essa e sull’immagine come unico punto di incontro/scontro.

Il primo capitolo racconta il restauro di pellicole della guerra in Libia del 1911 da parte dell’istituto Luce di Roma, il secondo osserva le vicende all’interno dell’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri italiano, il terzo è la formazione alla produzione audiovisiva di un gruppo di giovani militari francesi, il quarto esplora gli archivi della Cineteca Svizzera di Losanna. Sono luoghi di confine tra la guerra e la pace quelli del film, che tende all’infinito al “punto guerra”, avvicinandosi sempre più, senza mai toccarlo. La guerra non esiste, se non come spettro, non è mai inquadrata, se non nelle immagini, nelle pellicole, nei quadri e nei filmati registrati da smartphone; caricati della maggiore portata di azione di un film che è seminato di sguardi e gesti ordinari, spesso legati alle immagini stesse (restauro, riprese).

La riflessione più audace sta proprio nell’interrogarsi sul ruolo che l’audiovisivo occupa (e ha occupato) nel dare forma alla guerra, con, attraverso e per la pace. Se nel primo capitolo la riflessione si sofferma su immagini di propaganda militarista di inizio novecento che restituiscono un solo punto di vista (quello italiano, dell’invasore) totalmente rielaborabile grazie a quasi un secolo di storia, nel secondo capitolo i punti di vista si moltiplicano e il tutto viene, e deve essere, ripensato diplomaticamente nell’immediato. Se nel terzo capitolo viene affrontato il punto di vista autoriale, quello di chi filma, che manipola e, come dice un capo militare agli alunni, non deve porsi domande sulla fruizione futura di uno spettatore; nel quarto ci si sofferma, invece, su quello che è il punto di vista della storia, della memoria. Perché la guerra, come la pace, oggi la si fa con le immagini.

Tutto ruota attorno agli schermi che ripropongono, rielaborano, ambiguamente, confusamente. Il film sa andare anche oltre gli schermi (nel quarto capitolo, per esempio, le immagini vengono proiettate su oggetti), restituendo una visione liquida, multiforme, nei confronti della quale non esiste approccio oggettivo. E, proprio come fanno D’Anolfi e Parenti, non si può che tracciare percorsi, osservare, accostare, spesso anche inermi a tutto ciò.