Nel 1963 la commedia all’italiana era in forma smagliante. Dopo essersi imposta nella seconda metà degli anni Cinquanta come racconto popolare di successo, recidendo pian piano il cordone ombelicale che la legava all’avanspettacolo (i film con Totò in primis) e divenendo vero e proprio movimento artistico (un manipolo di registi e sceneggiatori con una poetica-manifesto condivisa) al pari del neorealismo (del quale è figlia illegittima), agli inizi dei Sessanta mise a segno dei colpi clamorosi, che ne definirono il passaggio ad una maturità non sempre compresa.

Erano gli anni di Tutti a casa di Luigi Comencini, che ci donava un Alberto Sordi per la prima volta non vile, della svolta inaspettata di Pietro Germi dal dramma alla satira grottesca con Divorzio all’italiana (dal quale venne coniato il termine del genere stesso), dell’enorme successo di Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica e dei capolavori di Dino Risi: Una vita difficile, Il sorpasso e I mostri. Con questi titoli la commedia si faceva audace, provocatoria, intrisa di critica sociale e molto più amara del solito. Specchio impietoso di un Paese imbevuto di un entusiasmo da schernire: la smania per quel benessere economico che credeva lo avrebbe reso migliore e gli avrebbe lavato la coscienza.

Quest’ultima era peraltro messa a dura prova da una sorta di revisionismo storico in chiave comica operato dai nostri, inaugurato da Mario Monicelli nel 1959 con La grande guerra. Era forte il desiderio - come per i neorealisti - di raccontare la Storia finalmente liberi dalle logiche propagandistiche del fascismo, con la sua soffocante retorica patriottica e le sue edificanti ed eroiche visioni. Il trionfo de La grande guerra, che demistificava l’intoccabile Prima guerra mondiale, fece da apripista per Comencini nel 1960 e per Risi nel 1961 con i già citati Tutti a casa e Una vita difficile, entrambi sulla Seconda guerra mondiale. Era un tipo di scrittura, per dirlo con le parole di Maurizio Grande, «in cui sfondo epico e primo piano comico strutturano una narrazione di grande respiro corale nella quale si staglia l’anti-eroe comico portatore del malessere individuale proprio della modernità».

Ma come anticipato all’inizio, purtroppo tale maturità non sempre veniva apprezzata e nel 1963 Monicelli incappò in un fiasco al botteghino quando raccontò di uno sciopero a oltranza da parte di operai di una fabbrica tessile guidati da un professore socialista in una Torino di fine Ottocento. Questo film compie quest’anno 55 anni e - a dispetto dell’insuccesso al suo debutto - si ritaglia un posto d’onore tra le commedie amare più riuscite di Monicelli. Sicuramente la più partigiana, a partire dal titolo: I compagni.

Proprio da qui, dal titolo, viene suggerita una coralità narrativa che Monicelli aveva già inseguito, senza riuscirci, ne La grande guerra, dove l’intenzione era inizialmente di raccontare le disavventure di un intero plotone che va a combattere, ma alla fine ad emergere sono i due protagonisti interpretati da Vittorio Gassman e Alberto Sordi. Con I compagni Monicelli riesce laddove aveva fallito (non a caso lo preferiva al film del 1959) e il racconto di questo gruppo di persone diventa quello di una lotta collettiva che non conosce età.

Perché se da una parte Monicelli si documentò molto con i suoi inseparabili colleghi di scrittura Age e Scarpelli sulla vita dell’epoca per una ricostruzione il più fedele possibile (gli scritti di Edmondo De Amicis, il romanzo La casa del popolo di Louis Guilloux, Alessandro Poerio, i saggi di Paolo Spriano sulla Torino socialista ottocentesca), dall’altra c’era la volontà di inserire nel tessuto narrativo di quel mondo lontano piccoli rimandi all’Italia del 1963. Tra scene girate a Cuneo durante un vero sciopero degli operai della fabbrica Stella e i tafferugli nel film tra lavoratori e forze dell’ordine che creano parallelismi d’immagine con la cronaca di quegli anni, Monicelli evidenzia quanto ancora ci sia da lottare per una società giusta, esaltando la virtù del fallimento attraverso le parole del professore che sprona gli operai ad alzare la testa. Personaggio da western, per stessa ammissione degli autori, che «arriva e sistema un’ingiustizia di cui è vittima una collettività». Un Wyatt Earp della dottrina marxista con il volto di Marcello Mastroianni.

Vi è infine l’amore irrefrenabile di Monicelli per il muto, per Charlie Chaplin, suo maestro indiscusso sia per il linguaggio comico che per le scene romantiche. Che detestava perché ricattatorie, ma proprio grazie al muto riusciva a nascondere tale astio, a svelare i sentimenti attraverso piccoli gesti, fino ad essere addirittura fiero del risultato ottenuto. Nel caso de I compagni è la scena di un addio, sotto un ponte, con i due che parlano ma non si sente nulla perché in quel momento passa il treno. Una scena da antologia.

E se davvero oggi, nell’Italia delle prestazioni occasionali, dei diritti calpestati, delle mansioni a pochi euro all’ora, delle proroghe che oltre un tot non si può più quindi vattene, del vabbé meglio che niente, dei festival di cinema che vivono sulle spalle dei volontari, dei pagamenti in visibilità e dell’estinzione dei contratti a tempo indeterminato; se davvero oggi questo racconto senza tempo di una lotta che dovremmo sentire tutti ci sembra datato solo perché compie 55 anni, allora ci meritiamo tutto il male di un Paese che, per carità, noi mica lo abbiamo votato.