La cosa più banale che si può dire a proposito de I predatori è che la sua ironia è prima di tutto una questione di maschere e caricature, di tipologie umane applicate alla modernità; è una questione di definizioni assolute e di categorie supreme in cui tuttavia il rimescolio comico ne ha tramutato esiti e statuti. Una questione, insomma, di aspettative. Se il mondo è un trabocco di stereotipi, un luogo dove ogni racconto è già esistito e ogni sorte è già assegnata, lavorare sulle convinzioni del pubblico e poi consumarle pezzo dopo pezzo sembra il meccanismo più adatto per dare significato e validità sociale al ruolo della maschera.

Ne I predatori tutto è regola e principio dello stesso gioco manipolatorio, qualsiasi dinamica sovvertita, qualsiasi imprevisto narrativo o colpo di scena è sintomo di farsa e misura di tragedia, nel segno di un cinema costruito sulle aderenze e sulle abiure, sulle promesse e sull’inganno. Pietro Castellitto, premiato per la sceneggiatura in Orizzonti all’ultima Mostra del cinema di Venezia, si accomoda su personaggi carichi di esasperazioni e slargature, come esige la caratterizzazione canonica del “tipo”, e poi li riempie di cortocircuiti e anomalie, così che le nostre aspettative nei loro confronti trovino a volte conferme e a volte smentite.

La famiglia dei Pavone fa parte dell’alta borghesia romana: padre medico, madre regista di successo, figlio ricercatore di antropologia all’università, ciascuno di loro si consuma nell’indifferenza del proprio agio e coltiva la propria letargia mentale in quel groviglio di sperperi e nevrosi che contraddistingue la vita privilegiata dell’élite. I Vismara invece abitano la periferia e sguazzano nella piccola criminalità, si riconoscono nell’amore per le armi da fuoco e nell’adesione all’iconografia fascista, affrontano gli eventi con la smania di chi, per raccontare il proprio disagio sociale, non ha mai conosciuto altra forma d’espressione al di fuori della rabbia. Castellitto allora non soltanto mette le due famiglie di fronte ai medesimi schemi narrativi (entrambe, per esempio, si riuniscono per festeggiare un compleanno ed entrambe, una all’inizio e una alla fine, saranno a loro modo vittime di una truffa), non soltanto ne intreccia le sorti con espedienti quasi da cinema pulp per evidenziarne differenze e affinità, ma addirittura, ed è questa la cosa meno banale che fa I predatori, rovescia i codici di rappresentazione dei due gruppi politici.

Due appartenenze opposte su ogni prospettiva, antagoniste su ogni fronte, eppure colte dalla contemporaneità e dai suoi mutamenti in un momento di crisi profondissima, soprattutto per quanto riguarda l’ambiente borghese. Destra e sinistra vivono di simboli e apparenze, sopravvivono come copertura sociale ma non sviluppano più visioni del mondo coerenti con la storia del proprio schieramento o con le ragioni del proprio dissenso rispetto al suo opposto: destra e sinistra sono, in sostanza, due spazi di pensiero vuoti allo stesso modo, sono due oggetti indistinguibili, sono due porte alla fine di un corridoio in una delle quali c’è l’ufficio del dottor Pavone, colui che, insieme alla sua generazione, ha contribuito alla crisi della sinistra. Federico infatti, frustrato figlio di Pierpaolo, quando si reca in ospedale per portare al padre il cellulare non si ricorda dove si trova il suo studio (“A destra, vero?” chiede al collega Bruno, “No, sinistra!” risponde lui).

Allora l’insofferenza e la confusione ideologica del giovane borghese non sgorgano tanto dalla repulsione nei confronti del movimento politico opposto, nel quale anzi la famiglia è ancora un luogo in cui residuano affetti e sentimenti veri, quanto piuttosto dal tradimento dei padri, quei “primi giovani stronzi” che negli anni hanno depredato le nuove generazioni delle loro aspirazioni. Non con la violenza e le armerie, come facevano i fascisti, ma con l’apatia e la menzogna.

I predatori assume così i caratteri del grottesco e la maschera del riso per esplorare le ferite del nostro tempo alla luce delle loro origini storiche; I predatori è l’endoscopia di un malumore condiviso, la constatazione acida, irresistibile e mai snob, di un collasso generazionale, la messa in questione di un fallimento politico e ideologico.