La ragazza in vetrina (1961) di Luciano Emmer è stato ferocemente osteggiato dalla censura alla sua uscita e anche le recensioni di una certa critica progressista non ne hanno colto in pieno il messaggio radicale di critica alla società capitalista che inibisce la liberazione del desiderio, etero ed omosessuale, mercificando tanto i corpi degli operai quanto quelli delle prostitute che questi frequentano nel fine settimana. A dispetto del titolo, La ragazza in vetrina è infatti un buddy movie in cui due operai italiani emigranti, il veterano Federico (Lino Ventura) e l’apprendista Vincenzo (Bernard Fresson), appena sfuggiti alla morte dopo un crollo in un cunicolo della miniera belga dove lavorano, passano un fine settimana insieme con due prostitute, Els (Marina Vlady) e Corrie (Magali Noël), tra Amsterdam, la riviera olandese e una gita al lago. Al termine del fine settimana, Vincenzo, che aveva deciso di partire per l’Italia, farà invece ritorno alla miniera (e, probabilmente, i successivi fine settimana rivedrà Els, come Federico rivede, da anni, Corrie).


Come in tutti i buddy movie, il film di Emmer ha un forte sottotesto omoerotico, silenziato anche dalla critica più progressista che difese il film contro, per usare le parole di Lorenzo Pellizzari su Cinema Nuovo, “le adirate proteste dei benpensanti . . . e della loro gesuitica morale”. Pellizzari vede il film come una storia d’amore che sfida le regole dello status quo e, nella decisione finale di Vincenzo di rimanere a lavorare nella miniera, uno sviluppo di coscienza di classe, “un positivo approdo del giovane alle ragioni della sopravvivenza e oltre”.
La mia lettura, invece, suggerisce che la decisione di Vincenzo di rimanere nella “mina” sia dovuta alla presenza di Federico. Centrale in questa lettura del film è la scena all’interno del bar gay in cui Federico entra involontariamente, nel suo vagare ubriaco per i locali di Amsterdam, e dove rimane per diverso tempo, diventando non solo oggetto del desiderio degli avventori ma anche della stessa macchina da presa che lo inquadra con un lungo, voyeuristico, carrello laterale. Questo movimento di macchina trasforma il bancone del bar in una vetrina, simile a quella delle ragazze come Els e Corrie che, Federico spiega a Vincenzo, “possono essere affittate” o “comprate come un chilo di parmigiano”. Il rapporto tra Vincenzo e Federico è fisico fin dal loro primo incontro nel cunicolo della miniera, uno sopra l’altro in una scena in cui il veterano Federico inizia l’apprendista Vincenzo allo scavo, e alterna, nel fine settimana, complicità e gelosia, litigi e riappacificazioni.

È difficile condividere l’ottimismo di Pellizzari per “il positivo approdo” raggiunto da Vincenzo: il suo ritorno alla miniera e, quindi, allo sfruttamento del suo corpo dalle logiche del mercato sottolinea la mercificazione dei rapporti nella società capitalista e l’impossibilità di emancipare e liberare il suo amore per Federico. Il gioco muto di sguardi tra i due nella discesa finale nella miniera, con un continuo cercarsi e abbassare gli occhi per paura di trovarsi, è davvero un esempio di quello che Félix Guattari definisce semiotica a-significante, un entrare in “connessione diretta con le macchine del desiderio” senza la validazione di un linguaggio dominante che ne espliciti l’Eros. E, tuttavia, l’inquadratura successiva a commento del ricongiungimento in miniera dei due uomini, è su un gruppo di topi, sottolineando la dimensione di trappola e di morte, evocata anche dalle discussioni su un altro possibile incidente come quello che apre il film. L’approdo è quindi “la reificazione del desiderio nella coppia amore-morte”, poli tra cui si crea, seguendo il ragionamento di Guattari, “una segreta simmetria” che lavora per escludere la liberazione del desiderio “da ogni accesso al reale e la rende prigioniera di rappresentazioni fantasmatiche”.