"In fondo cos’è un samurai?" chiede retorico Kikuchiyo ai suoi compagni guerrieri per provocarli, svilendo il titolo di cui si fregiano. Sembra voler rispondere a questa domanda il capolavoro di Akira Kurosawa I sette samurai, primo autentico Jidai-geki dell’imperatore del cinema, ambientato nel tardo periodo Sengoku.

È la fine del XVI secolo e la guerra intestina che sta spaccando il Giappone da oltre centoventi anni ha raggiunto il suo culmine. Gli abitanti delle città vivono nella miseria, molti samurai si ritrovano sbandati dopo la morte dei rispettivi padroni e alcuni di loro si danno al banditaggio, depredando inermi comunità agricole. Nel disperato tentativo di difendere il proprio villaggio dai briganti, un gruppo di contadini parte alla ricerca di samurai disposti a difenderli, rischiando la loro vita senza alcun guadagno.

È peraltro una delle prime volte nella storia del cinema in cui si assiste al reclutamento del gruppo di protagonisti, che di lì a poco rappresenterà un elemento imprescindibile. Formatosi il manipolo di ronin, entra in gioco il reciproco disprezzo fra la casta dei samurai e quella dei contadini, e la spietata sceneggiatura scritta a sei mani (Kurosawa, Hashimoto, Oguni) dà il meglio di sé: i samurai non sono eroi senza macchia né i contadini delle pecorelle indifese.

Il trait d’union fra i due gruppi è prevalentemente Kikuchiyo, samurai improvvisato ma figlio di contadini, chiassoso e infantile quanto intrepido e comprensivo, interpretato da un Toshiro Mifune all’apice delle sue possibilità. È certamente lui il personaggio che emerge su tutti, probabilmente un riferimento al vero samurai Toyotomi Hideyoshi, anch’egli figlio di contadini che avrebbe riunificato il Giappone pochi decenni dopo i fatti raccontati nel film.

Come già in Rashomon, Kurosawa sfrutta il passato anche per parlare del presente: dell’individualismo predatorio del secondo dopoguerra, parzialmente ereditato dalla cultura dell’occupatore statunitense. L’approccio umanista rappresenta per l’autore giapponese, coerentemente con gran parte della sua filmografia, la via auspicabile per la coesione sociale, il termine della lotta di classe.  Afferma infatti il samurai Kambei, per appianare l’attrito fra guerrieri e contadini: "Chi difende tutti difende se stesso, chi pensa solo a se stesso si distrugge".

L’ideale eroico proposto è quindi speculare alla retorica individualista: in entrambi i casi gli interessi del singolo coincidono con quelli della comunità, ma affinché vengano perseguiti è necessaria l’abnegazione dell’eroe stesso.  Questo è un samurai per Kurosawa, e sarà sempre Mifune a interpretare questo inusuale personaggio in La sfida del samurai e Sanjuro, confermando la splendida alchimia di una delle migliori coppie attore-regista della storia del cinema.