Mai come in questa 79esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, un fil rouge sgargiante ha attraversato ogni film in concorso (e non solo). Perché è indubbio, nel bene e nel male, che si sia riscontrata una coerenza di temi mai così salda come in questa selezione, qualcosa che lega un film all’altro in un gioco di incastri sorprendente, a tratti inquietante. E non si tratta di una sensazione suggerita, forzata, a tratti percettibile: è qualcosa di incredibilmente nitido che fa di un film la controparte dell’altro, in un botta e risposta ideale.

Rispetto alle scorse due edizioni, Venezia 79 sembra parlare più apertamente della perdita, dell’emarginazione e dell’isolamento. Con lenti più a fuoco, sguardi più consapevoli. Del resto, era fisiologico: ci voleva il giusto tempo per metabolizzare l’emergenza COVID-19 e le sue conseguenze psicofisiche (oltre il concorso, lo ribadiscono l’ottimo Siccità di Virzì e The Listener di Steve Buscemi). Ed ecco che gli spazi si fanno sempre più stretti, dal formato dello schermo (passare dal 16:9 al 4:3 è risultata pratica naturalissima, quest’anno) ai luoghi della messa in scena. Appartamenti, stanze, gabbie e rifugi sono i protagonisti scenici, nidi e camere di tortura in cui vengono custodite paranoie, ansie, traumi, segreti.

Sono gli appartamenti di Charlie in The Whale (Darren Aronofsky), di Peter in The Son (Florian Zeller), di Andrea/Adriana ne L’immensità di Crialese, del protagonista di Shab, Dakheli, Divar (Oltre il muro, di Vahid Jalilvand). Sono le camere da letto di White Noise (Noah Baumbach) e di Monica (Andrea Pallaoro), le quattro mura in cui è confinato Jafar Panahi in Khers Nist (Gli orsi non esistono), dove il mondo esterno (che sia il dissidio in un villaggio o una guerra di confine) sembra trovare sempre il modo di varcare la soglia. Ma sono anche le casette in pietra di Pádraic e Colm — protagonisti del gioiello di scrittura di Martin McDonagh, The Banshees of Inisherin (Gli spiriti dell’isola) — ed è la stessa isola, dove si osserva la guerra a distanza di (in)sicurezza in nome di altri piccoli-grandi conflitti. Ricorda qualcosa?

Sono spazi di tensione familiare. Nel senso di “legami di parentela”, ma anche di ciò che è riconoscibile, affine, vicino. Sono errori che crescono a dismisura, affari di famiglia ingombranti che riempiono le stanze fino a togliere il respiro. Equivoci che impattano sulla mente e sul cuore, per carnefici che si credono vittime e vittime che si trasformano in carnefici. E familiare è proprio il termine giusto, laddove il conflitto (con sé stessi e con l’altro) diventa un viaggio estenuante per fare i conti con tutto ciò che è ancora irrisolto, alla ricerca costante di un senso di appartenenza.

La famiglia come “culla della disinformazione mondiale” (è Baumbach che parafrasa Don DeLillo), condanna e rifugio. Un compendio di amore e dolore dal quale si scappa e dal quale è impossibile fuggire. La famiglia come istituzione da demolire e ricostruire, a partire dagli abbandoni — ancora The Whale, The Son e Monica, ma anche Bones and All (un Guadagnino in formissima in “zona Stephen King”) e Blonde di Andrew Dominik, che mette al centro della (vera/falsa) biografia di Marilyn le assenze, da presentificare come ombre angoscianti. Come angoscianti sono i legami in Saint Omer, esordio alla finzione di Alice Diop che ha folgorato gran parte dei critici. Meno perturbanti quelli di Crialese, ambizioso ma poco incisivo nell’appassionata mise-en-scène (auto)biografica. Ma anche un film politico come Il signore delle formiche di Gianni Amelio finisce per riflettere sulle cicatrici (visibili e invisibili) che la famiglia sa infliggere, in qualità di primo vero specchio della società.

Si potrebbe discutere di quanto gli scorsi anni abbiano predisposto il terreno per un discorso meno retorico sulla fine — le opere di Baumbach e Iñárritu su tutte, entrambe firmate Netflix — e di quanto realtà e finzione, vissuto e sognato, diventino controparti interscambiabili dei concetti di “vita” e “morte”. Apocalissi gnostiche altisonanti, come nel caso di Bardo, cronaca di una falsa verità (un film onirico sproporzionato tra Fellini e Sorrentino, poco amato dai critici di questa Venezia 79) e altre più piccole e verosimili. Come la devastazione in Athena di Romain Gavras, prosecuzione ideale de Les Miserables di Ladj Ly (che in Athena collabora alla sceneggiatura, non a caso). Un altro film Netflix che nel mettere a ferro e fuoco le banlieu francesi infiamma i nostri occhi e i nostri cuori già dal primo incredibile piano sequenza.

Tra baratri, disfunzioni e conflitti, quello che però sembra mancare in questo concorso — oltre a una più decisa eterogeneità: basti pensare che il film asiatico in gara è solo uno, Love Life di Kôji Fukada — è un film “estremo”, folgorante, coraggioso. A livello internazionale, forse solo Wiseman con la sua inaspettata (faticosissima, a tratti insopportabile) oretta di film (Un couple) riesce a portare il cinema in territori meno convenzionali, scarnificando oltremodo la scena (“bones and all”, per davvero). L’anno scorso fu Il buco di Michelangelo Frammartino, con un utilizzo del sonoro schiacciante, straordinario. Oggi? Oggi anche il cinema italiano in concorso sembra compiere un passo indietro.

Attenzione: non si parla di una regressione qualitativa, tutt’altro. Si tratta di “tornare alle origini”, di arretrare rispetto alle possibilità più audaci del medium. È un ritorno al racconto diretto, ben lontano da un cinema che frammenti e scomponga la narrazione come quello di Frammartino (piaccia o non piaccia). Le biografie, le storie sono al centro nei film di Amelio, Crialese, Pallaoro e, naturalmente, di Susanna Nicchiarelli. Ma se la Nicchiarelli prova a prendersi più libertà stilistiche in Chiara, il film — per quanto amorevole, devoto, studiato — resta schiacciato dalla voglia frenetica di “fare cinema”. Come? Sfruttando diverse strategie narrative e allentando spesso la presa sullo spettatore. Un po’ come fa Blonde di Dominik, che nel suo mix di generi (smisurato: quasi tre ore di film) non spicca mai il “grande salto” creativo, restando ancorato alla sua trasparenza.

Consegnare il Leone d’oro a un documentario come All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras ha costituito il vero segnale di rottura di questa Venezia 79. Un premio davvero inaspettato, a differenza degli altri. Certo, chi scrive avrebbe prevedibilmente immaginato Brendan Fraser impugnare la Coppa Volpi tra le lacrime (l’ostilità critica nei confronti di un Aronofsky poco cinico è affamata di altri riconoscimenti), ma onorare Cate Blanchett per TÁR, McDonagh per la sceneggiatura, Guadagnino, Panahi e la Diop è stato un po’ come ricalcare le orme di un percorso già tracciato. Insomma, tutte scelte coerenti con lo stile e i temi di questa edizione.

Lo spiega bene Andrea Pedrazzi nell’articolo dedicato. Premiare All the Beauty and the Bloodshed sembra non voler omaggiare il film in sé (alquanto classico nel suo stile documentario), ma la capacità della Poitras di farsi da parte e di mettere al centro dell’opera Nan Goldin, il suo lavoro artistico e la sua battaglia politica e sociale. Farsi da parte: forse l’atto più estremo in questa edizione della Mostra, laddove il regista sembra essere così costantemente al centro dell’opera da risultare un libro aperto. Decifrabile, immediato e mai così efficace nel raccontare le emozioni, ma anche ingombrante nella sua schiettezza. E forse il Leone d’oro a All the Beauty and the Bloodshed significa proprio questo: premiare il linguaggio e le sue potenzialità. Un atto fiduciario per tutti gli sguardi a venire.