Lode e gloria a coloro che si stanno impegnando a mantenere viva la memoria di Yasujirô Ozu attraverso la riscoperta e il restauro della sua opera che in Italia ha circolato ben poco fino a pochi decenni fa. Presentato a Venezia Classici, Il sapore del riso al tè verde precede il capo d’opera Viaggio a Tokyo e ciononostante riesce ad imporsi all’attenzione dello spettatore contemporaneo con gentile potenza. Realizzato quattordici anni dopo la sua ideazione per problemi di censura, il film finisce per sfruttare benissimo la collocazione storica in cui si presenta: il dopoguerra giapponese è il momento adatto per raccontare le spinte occidentali nella cultura orientale specie per quanto concerne la dimensione privata.

La malinconica commedia, infatti, si focalizza proprio sui turbamenti di una coppia apparentemente mal maritata che fa i conti con i limiti e le contraddizioni del tipico costume locale del matrimonio combinato, obbligo a cui sta per sottoporsi anche una loro nipote piuttosto recalcitrante all’idea. Con un discorso limpidissimo che procede per parallelismi, Ozu si concentra da una parte sulla moglie che mente al marito per frequentare le sue amiche emancipate ed attratte dalle possibilità del moderno e dall’altra sul marito vagamente tristanzuolo e poco elastico, con qualche necessità di sfogare il paterno inespresso e abbastanza al corrente delle bugie od omissioni della consorte.

La chiave sta nel titolo: nato povero, il marito ama mangiare il riso col tè verde giudicato dalla moglie volgare e non all’altezza del benessere raggiunto. Il problema matrimoniale è, dunque, sia sociale, perché ha a che fare con la paura del declassamento per mezzo di forme che esprimono contenuti, sia sentimentale, per la semplice ragione che i due non hanno voluto fare esperienza del loro amore pianificato quindi mancato. Con la grazia dei saggi, Ozu mette i protagonisti davanti al fallimento che può essere ancora salvato: e li fa sedere a tavola, dove finalmente la moglie assaggia il cibo della discordia e il marito capisce i bisogni emotivi di lei, ed insieme costruiscono l’esperienza mancante per ipotecare una vita diversa e senza menzogne.

E forse c’è tutto l’ultimo Ozu in questa finale mezz’ora densa di umanità e speranza, un cinema etico e popolare che ripensa se stesso contemplando i cambiamenti del mondo e andando letteralmente nella profondità del domestico in una prospettiva comunque universale nel suo accompagnare il nuovo sguardo collettivo nelle geometrie schematiche del tinello privato.