Non lasciamoci illudere dal pur splendido exploit di La La Land (Damien Chazelle, 2016): il musical hollywoodiano, come l’abbiamo amato noi spettatori consapevoli del grande avvenire alle nostre spalle, non esiste più. Una tesi che proprio questo film tende a confermare: basterebbe rilevare la presenza di attori che reinterpretano il canto e il ballo senza essere cantanti e ballerini a dirci quanto sia una vera trenodia al genere. Ad un mondo che storicamente ha messo in scena la propria fine, con una coscienza metalinguistica talvolta davvero inquietante nell’esplicitare la finzione sulla quale si regge. Se accantoniamo per un attimo Fred Astaire, che trovò in Spettacolo di varietà (Vincente Minnelli, 1953) uno struggente autoritratto, ci accorgiamo che Gene Kelly è forse colui che meglio ha saputo incarnare il senso di una fine. Non c’è solo Brigadoon (Minnelli, 1954) ad offrirci l’orizzonte di una visione dove l’altrove ha i contorni onirici di un incubo accogliente.

Pensiamo a come ne Il pirata (Minnelli, 1948) sublimi l’inganno della fantasia all’interno della stessa narrazione. O, naturalmente, al grande capolavoro Cantando sotto la pioggia (Stanley Donen e Kelly, 1952): attraverso il concetto di riciclo (canzoni edite del repertorio MGM), il film celebra lo spettacolo, l’ideologia dell’intrattenimento, il conflitto tra cultura alta e cultura bassa, la realtà che si fa spettacolo, il mito americano nei termini di una parata nostalgica, un racconto di uno spettacolo in fieri, un sogno che semina il germe dell’incubo. Se parliamo di musical – cioè di questo musical – parliamo soprattutto di Kelly.

Se Astaire danza con l’eleganza di chi sembra atterrare dal paradiso (e forse era vero), di Kelly si percepiscono tutte le gocce di sudore che sfondano lo schermo come proiettili. È il ragazzo che ce l’ha fatta, la “mens sana in corpore sano”, il prodotto di un massacrante esercizio atletico. Proprio perché viene dal nostro mondo, Kelly finisce sempre in altri mondi: è per lui il modo con cui sottolineare l’impossibilità per il suo corpo ginnico di combattere il puritanesimo, le convenzioni sociali, la banalità che lo circonda. Se tramonto deve essere, che sia almeno lontano da qui, come intuisce Minnelli che lo fa viaggiare nello spazio e nel tempo: un artista nei Caraibi, Un americano a Parigi (1951), un turista finito nel paese che compare ogni cento anni. È proprio qui che Cyd Charisse – già partner/contraltare di Astaire in Spettacolo di varietà (quella danza a Central Park…) – svela la grande illusione: “il nostro giorno è alla fine!”. La grandezza di Kelly risiede nel ballare sul Titanic del musical come se l’iceberg della realtà sia fatale quanto evitabile allo sguardo: magari È sempre bel tempo (Donen e Kelly, 1955), ma se si continua a cantare e a ballare lo si fa con lo sconforto nel cuore, e allora tanto vale tacere e fuggire danzando nel Trittico d’amore (Kelly, 1956).

Con Les Demoiselles de Rochefort (1967), Jacques Demy officia il congedo di Kelly (ci sarebbe Xanadu, [Robert Greenwald, 1980], ma insomma…): come Minnelli, lo fa muovere, trasferendolo nella città portuale del titolo, che grazie al suo filtro si distacca anch’essa dalla realtà. Facendo incontrare il divo con una pletora di non-professionisti del musical (che sì ballano ma sono doppiati da veri cantanti), l’omaggio cinefilo di Demy anticipa e postula i presupposti di Chazelle: sotto il sempre splendente sorriso, Kelly sta vivendo la sua estrema avventura in un genere che è già diventato altro da sé. Ripropone le sue vecchie coreografie, appare con abiti pastellati conformi alle tinte del contesto, è ancora l’eroe romantico. Sa di dover andare altrove, ma il suo spirito resiste.

E pare resistere anche oggi, che il musical vive in quanto mito, nostalgia, eccezione. Pensiamo a Channing Tatum, che in Ave, Cesare (Joel ed Ethan Coen, 2016) è un attore che può realizzarsi solo evadendo nel “film nel film”. Vestito da muscoloso marinaio cita Un giorno a New York (Donen e Kelly, 1949), mette in campo la gioia della sua imperfezione, vive il genere nell’unico posto che gli è concesso: un set del passato, del 1951, come quello dove Kelly spiega a Debbie Reynolds la misura di un amore servendosi del set stesso (pare scontato ricordarlo, ma anche Cantando sotto la pioggia rievoca il passato). Oppure: quanto Kelly c’è nel sorriso e nell’esercizio di Jean Dujardin in The Artist (Michel Hazanavicius, 2013) o nell’eleganza atletica da entertainer di Hugh Jackman? E quando, nel finale di La La Land, Ryan Gosling accompagna Emma Stone nell’ipotesi di una vita che soltanto il musical può raccontare, eccoci nella parentesi artistica di Un americano a Parigi ad immaginare un’altra utopia dove è possibile il sogno. Ripensando la leggenda, Tatum, Dujardin, Jackman, Gosling hanno edificato monumenti all’eternità di Gene Kelly.