Difficile trovare parole più esatte di quelle che François Truffaut scrisse su Il diritto di uccidere di Nicholas Ray, un regista che anche grazie alla critica militante di sponda Cahiers può tuttora godere della dovuta attenzione. Ci proviamo, in punta di piedi, a distanza di quasi settant’anni, perché Ray resta autore di inesauribile vitalità, tra i pochi capaci della spudoratezza necessaria per intrappolare lo spettatore dentro un meccanismo di diabolica precisione.
La crudeltà di Ray ha di feroce soprattutto il disincanto nei confronti del mondo, rivelato non a caso attraverso il filtro di Hollywood. Oltre ad essere un capolavoro, Il diritto di uccidere è un meta-film – o se volete un film teorico – che ha per protagonista uno sceneggiatore alle prese con lo svogliato adattamento di un romanzo amoroso e con le indagini su un delitto che lo sfiora pericolosamente. Mai come qui non ci interessa fino in fondo sapere chi sia davvero l’assassino. Ciò che ci intriga davvero è capire perché, al di là degli alibi, mai non dovrebbe o potrebbe essere Humphrey Bogart.
In sottotraccia c’è la storia di un ex grande sceneggiatore che dalla fine della guerra non ha più messo una parola sul foglio, preferendo insensate e frequenti risse. C’è il dramma di un ferito a morte (c’entrano i traumi postbellici? una delusione d’amore? oppure è solo incomunicabilità?) che si comporta in modo indecifrabile, mascherandosi dietro un sarcastico cinismo che vorrebbe mimetizzare un atroce dolore. Niente ci spiega davvero cosa sia davvero accaduto; tutto, nel volto di Bogart segnato da qualunque cosa, ci dice che non è essenziale saperlo.
Con un’ipoteca sul fallimento esistenziale e professionale, Bogart si fa corpo di un’allegoria sulla caccia alle streghe, dove un indizio senza fondamento è la prova di un presunto ed inequivocabile disegno criminale, dentro un sistema industriale che emargina le glorie decadute (lo struggente attore alcolizzato Robert Warwick) e illude le giovani promesse. D’altronde non è anche la storia d’amore tra uno sceneggiatore in crisi e un’attrice fallita, cioè Gloria Grahame? Non è anche il backstage sia di una “Hollywood story” sia di una sceneggiatura, nonché il banco di prova di un sentimento ma allo stesso tempo si basa sul racconto orale di una vittima che è spettatrice ideale, quasi un oscuro presagio del destino?
Immergendosi nella decadenza autoriflessiva di una nazione dominata dal sospetto verso il prossimo, mette in scena la tragedia di un disperato che non riesce a liberarsi della violenza che gli appartiene “come il colore dei capelli”. Al contempo è un saggio sulla scrittura di un film e sul come raccontare una storia: un noir, certo, con l’inquietante lezione sul come rendere un’uccisione un ingranaggio perfetto e credibile, ma anche un devastante mélo. In uno dei momenti più indimenticabili del cinema americano, la dichiarazione d’amore che lo sceneggiatore Bogart vuole inserire senza sapere dove diventa, infatti, la pietra tombale sul desiderio di una vita nuova.