Regista scomodo e mai aprioristicamente schierato, Pietro Germi è autore di un cinema popolare di impianto realista fortemente ancorato ad antichi valori in cui dimostra di credere, ma al contempo capace di individuarne i limiti, le contraddizioni e le sovrastrutture retoriche facendo di questi gli oggetti di una critica rivolta al crescente smarrimento morale cui il Paese andava incontro.

Diviso tra il partecipato racconto delle classi meno agiate (Il cammino della speranza, L’uomo di paglia, Un maledetto imbroglio) e la cinica satira del mondo borghese (Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata, Signore & signori), i suoi film costituiscono un unicum nella coeva produzione nazionale, un sanguigno e personale ritratto di un Paese in contraddittorio cambiamento.

Reduce da alcuni insuccessi commerciali, con Il ferroviere Germi firma la sua prima opera fortemente personale, debitrice verso il realismo francese di Marcel Carné e Jean Renoir. Nel racconto del ferroviere Andrea Marcocci, diviso tra il disumanizzante lavoro e una famiglia che sta perdendo la sua unità, l’autore trova la forma a lui ideale per esprimere una sensibile compassione verso la condizione di emarginazione sociale di cui lui stesso si fa portavoce: è Il ferroviere infatti il primo film del regista da lui stesso anche interpretato.

Il suo Marcocci è un uomo semplice e concreto, segnato da una vita dura che l’ha costretto a scelte e sacrifici per la famiglia. La dolenzia con cui ogni sera si ferma all’osteria coi colleghi è il segno di un bisogno di evasione da una routine oppressiva, una quotidianità che corre avanti a lui come la locomotiva di cui apparentemente detiene il controllo ma che – come dimostra l’inevitabile incidente scatenante di cui è protagonista – è in realtà solo il primo passeggero.

Non riesce a evitare lo sfaldamento del legame coi figli, il conflitto interiore che lo porta a riprendere il lavoro per necessità nonostante lo sciopero dei ferrovieri, l’aggravarsi della malattia a cui non ha dato mai troppo peso. Il suo vivere è una lotta quotidiana contro un destino contrario, come nella tradizione del melodramma nazionale di cui Raffaello Matarazzo è stato il principale esponente.

Ma Germi va oltre la lacrima facile, facendo del suo racconto la rappresentazione di una classe sociale che il neorealismo aveva portato sul grande schermo in tutta la sua drammaticità presto però trasfigurata dalla commedia popolare degli anni Cinquanta. Il ferroviere è un quadro sociologico del proletariato italiano del dopoguerra, in ripartenza ma ancora lontano dal boom economico.

La vicenda di Marcocci diventa allora un pretesto per raccontare un clima, una condizione diffusa di “una società dove l’unica salvezza è nel senso di appartenenza a un mondo antico, popolare, capace, con il proprio affetto e le proprie radici, di dare la forza per affrontare i drammi della vita” (Gian Luca Farinelli). Accusato da certa critica prevenuta di una narrativa eccessivamente deamicisiana, il film si rifà invece alla poetica del romanziere nel racconto intimo e appassionato di quel senso di condivisione di intenti e destini che faceva della classe di Cuore il modello ideale della nascente società nazionale.

Non sorprende allora che la pellicola annoverasse tra i suoi estimatori Ermanno Olmi, narratore degli esclusi, degli scartati perché non abbastanza intraprendenti e sfacciati: “[Germi] Mi disse che aveva visto Il posto, il mio film che era stato alla Mostra di Venezia e che gli era piaciuto. Io gli confidai la grande emozione (e le lacrime!) per il suo Ferroviere. Ma al di là della grazia sublime dell'opera ‒ di una rara potenza poetica! ‒ c'era per me una ragione particolare, che mi faceva amare in modo speciale quel suo film: riguardava la mia stessa vita e quella di mio padre che aveva attraversato le stesse vicende del suo ferroviere” (Ermanno Olmi).

Due autori così vicini per stile e poetica di cui oggi più di allora si sente la mancanza e il bisogno.