L’uscita nelle sale di Se la strada potesse parlare è l’opportunità per apprezzare il contributo intellettuale di James Baldwin, dal cui omonimo romanzo il film è tratto, non solo come fonte di ispirazione per narrazioni cinematografiche ma anche come critico e teorico di cinema. In The Devil Finds Work (1976), di cui Fandango Playground ha recentemente pubblicato in italiano il primo saggio Congo Square, James Baldwin intreccia la narrazione autobiografica del suo incontro con il cinema con un’analisi critica militante e ancora attuale che evidenzia i pregiudizi razziali e di genere della cultura cinematografica dominante americana. Nei tre contributi raccolti nel volume, lo scrittore afroamericano, al tempo già espatriato in Francia da oltre tre decenni, spazia da Nascita di una nazione (1915), un testo razzista fondamentale per la storia del cinema e l’identità nazionale americana, a L’esorcista (1973), il cui ritratto del male Baldwin trova, nella sua banalità, la componente più terrificante e inquietante del film. Infatti, argomenta Baldwin, L’esorcista si conclude con la vittoria sul male e la sua obliterazione. Tuttavia, questa è una semplice fantasia della cultura dominante: per i rapporti di forza e di sfruttamento alla base della società americana e della sua politica imperialista, i semi della rabbia e della rivolta sono costantemente conservati nelle piantagioni di cotone e nei ghetti della nazione, negli occhi e nei cuori degli ultimi e nella distruzione del Vietnam.
Baldwin non è certo più tenero con i prodotti della tradizione liberal hollywoodiana. Anche in questo caso, lo scrittore alterna la dimensione autobiografica, le pressioni a cui fu sottoposto come sceneggiatore di un film su Malcolm X di cui non vedrà mai il risultato finale, all'analisi filmica, concentrandosi in particolare su tre film con Sidney Poitier: La parete di fango (1958) e Indovina chi viene a cena (1967), entrambi di Stanley Kramer, e La calda notte dell’ispettore Tibbs (1967) di Norman Jewison. Baldwin sottolinea come anche questi prodotti progressisti siano il frutto di paure bianche, come il possibile contatto omosociale interraziale nelle coppie Poitier – Curtis nel primo film di Kramer e Poitier – Steiger nel poliziesco di Jewison (osservazione che anticipa, in qualche modo, il concetto di “panico omosessuale” e di “lettura queer” di Eve Kosofsky Sedgwick), o l’eventuale invasione afroamericana dell’Eden bianco tollerante costruito dalla coppia Tracy – Hepburn sulle alture benestanti di San Francisco. Come per la sceneggiatura su Malcolm X che Baldwin si rifiuterà di portare a termine per le pressioni a sminuire il significato politico del protagonista, così in questi tre film la cultura dominante blocca ogni possibilità di sostenere la causa di un effettivo cambiamento e rinnovamento sociale. Con una certa amarezza, Baldwin conclude che Indovina chi viene a cena ci insegna che le persone possono sposare chi vogliono, specialmente se siamo certi che se ne andranno non appena la cena sarà finita.
“Il linguaggio della macchina da presa è quello dei nostri sogni”, scrive Baldwin al termine di Congo Square. Il problema che lo scrittore pone nel corso dei tre saggi di The Devil Finds Work, tuttavia, rende l’affermazione meno romantica e più ideologica: la mancanza di modelli con cui gli ultimi, i diseredati, si possano identificare e sognare se non quelli della cultura dominante. Così, lo stesso Baldwin ricorda come da adolescente, scoprendo il cinema, si identificasse principalmente con dive bianche come Joan Crawford e Bette Davis e, dopo aver visto Furore (1940) di John Ford, con Henry Fonda. Gli scritti sul cinema di Baldwin raccontano, quindi, non solo della cinefilia dell’autore, ma anche del tentativo di un suo uso politico per affermare nuovi linguaggi, neri, omosessuali, radicali, attraverso cui la macchina da presa possa davvero esprimere i nostri sogni.