Andrea Segre torna a Venezia con il suo quarto film di fiction, ma in realtà sarebbe più corretto dire che da Venezia non se ne è mai andato. Come ha raccontato durante la presentazione di Welcome Venice, si tratta di un film che aveva iniziato a scrivere nel 2018 e avrebbe dovuto essere ambientato in una Venezia piena di persone (la massa turistica che ormai costituisce una delle piaghe più sentite dalla città). La prima stesura è stata completata nel 2019 e le riprese avrebbero dovuto iniziare nel marzo 2020, ma con l’esplodere della pandemia e il lockdown, il regista si è trovato bloccato a Venezia per più di un mese e mezzo, e si è messo a scrivere un altro film.

Molecole (2020), un film intimista, incentrato su una figura paterna dominante e sul fenomeno dell’acqua alta, insieme a Il pianeta in mare (2019), che ripercorreva la storia di Marghera per riflettere sul rapporto tra scenario politico e natura umana, e l’ultimo Welcome Venice costituiscono la trilogia veneziana di Segre, uno dei registi “di laguna” più prolifici della storia, un autore che ha fatto del suo personale rapporto col mare e, in particolare, con lo spazio marino chiuso lagunare, il marchio inconfondibile del suo immaginario cinematografico.

Tony (Roberto Citran), Pietro (Paolo Pierobon) e Alvise (Andrea Pennacchi) sono gli ultimi eredi di una famiglia di pescatori di moeche (piccoli granchi pescati nella laguna veneziana solo in determinati momenti dell’anno, durante la fase di muta in cui perdono il carapace) nati e cresciuti alla Giudecca, isola a Sud di Venezia. A causa di un vero e proprio fulmine a ciel sereno, i moecanti si ritroveranno all’improvviso faccia a faccia con un cambiamento epocale, che muterà i connotati non solo alle loro vite, ma anche alla città di Venezia, che da sempre le ospita, che ha fatto loro da culla e che adesso pare destinata a scomparire dagli orizzonti intimi e più profondi dei suoi residenti. Pietro e Alvise incarnano i due ruoli opposti di questa evoluzione, il primo attribuendo un valore salvifico al ritorno alle tradizioni, vorrebbe continuare a vivere sull’acqua e a pescare moeche per non tradire le sue radici, il secondo, che non ha mai imparato a nuotare, preme per spostare gli investimenti di famiglia sulla terraferma e mettere a rendita la casa natia.

La capacità di penetrare il senso intimo e l’imperscrutabile materia di cui sono fatte le relazioni umane, senza apparentemente metterle al centro del discorso, rappresentano di certo la più grande potenza dei film di Segre. Mentre l’obiettivo della sua macchina da presa è rivolto a un’anatra natante, a una barca che taglia il pelo dell’acqua sul canale o ad una moltitudine di granchi fotografati in modo inedito ed indimenticabile, tra i chiaroscuri sentimentali di albe e tramonti sul mare, che ci feriscono gli occhi e il cuore, e una colonna sonora impastata di musicalità naturali quasi rubate dal mondo circostante, ecco che Segre riesce a narrare, con sguardo da poeta, l’essere umano.

La vita che si annida tra le fila di un tessuto quotidiano fatto di azioni che si ripetono per tutti uguali. Pur essendo per ciascuno così profondamente diverse. Sono le azioni che costruiscono di ciascuno l’identità, la vita. E che così semplicemente narrate dalla sua cinepresa restituiscono a ciascuno di noi un po’ di sé stesso. Anche se non siamo veneziani, né moecanti né predatori del turismo lagunare.

Welcome Venice, che col suo titolo sgrammaticato ci offre un’idea del rifiuto del nuovo che avanza da parte di un mondo tradizionale già quasi estinto, è un film genuino e prezioso per la sua profonda potenza espressiva. Il detonatore di tale espressività è dato dalla costruzione dicotomica della sua consistenza drammaturgica. L’ambientazione in laguna come spazio di mare protetto, favorisce la comunicazione perpetua tra mare chiuso/ mare aperto, antico/ moderno, guscio esteriore/ intimità psichica, acqua/ terraferma.

Andrea Segre riesce a dare visibilità all’invisibile, rende materica la dualità di una storia familiare, ma anche sociale che si trova a soffrire della contrapposizione dualistica tra ciò che era e ciò che è, tra la pesca e il turismo, tra le case abitate dai residenti e le residenze di “charme” (ossia turistiche), tra la città silenziosa e il chiasso dei visitatori in gondoletta. Questa dicotomia portata alle estreme conseguenze sembra non lasciare spazio a un terzo escluso o trasversale. Eppure noi lo percepiamo, questo terzo includente, trasversale, è lo sguardo del regista. Sguardo sapiente e magnanimo che non cade nell’errore di condannare né preferire nessuna delle posizioni presentate nel film.

Non ci sono vittime né carnefici nemmeno in questo suo film, così abile  a narrare la complessità della vita nelle sue mille sfaccettature, senza prendere una posizione perpendicolare o di condanna su quell’ordine delle cose che ancora una volta pare essere impronunciabile difficoltà dell’essere umano: trovare equilibri nuovi tra opposti che si compenetrano senza annullarsi reciprocamente, accogliere la vita nella morte, l’acqua sulla terraferma, la ricchezza più grande nella apparente povertà. La predisposizione ad accogliere le metamorfosi della vita, abbandonando vecchi gusci o comfort zone dell’anima per nuovi orizzonti inesplorati e pur promettenti. Ecco perché riecheggiano i versi di una vecchia canzone di De Gregori che riassumeva il senso delle contraddizioni lagunari all’incirca così: "Venezia sta sull’acqua e piano piano muore/ Galleggiano i nostri cuori come isole per la via/ Venezia, luogo comune della malinconia".