Da qualche anno, si sa, sono tornati (ma forse non se ne sono mai andati davvero) gli anni Ottanta. Rientrano a testa alta i dischi in vinile e le musicassette, riappare sul mercato una famosa merendina (in edizione limitata, ci mancherebbe), vige una competizione forsennata tra chi fa più revival e remake, schizzano in classifica hit con campionature glam-rock ed euro-disco, sgomitano piumini, k-way e pantaloni larghi, show televisivi nostrani strizzano l’occhio (chi più e chi meno bene) agli anni ruggenti dell’ultimo varietà italiano prima dell’effettivo declino. Non solo Stranger Things: nel 2021, gli anni Ottanta e la cultura pop del periodo sono in mezzo a noi. E chi li ferma più.

C’è una certa urgenza di dare un’altra vita al “nuovo decennio” in cui vigeva una percezione estremamente positiva della realtà e delle costruzioni sociali. Visto il tale ritorno improvviso, in un periodo storico non proprio roseo, dettato dalla conseguenza del bisogno di fuga dalla realtà, Il Mostro della cripta racchiude la giusta metafora di un desiderio spasmodico di immaginazione, evasione e fantasia. Nel film diretto da Daniele Misischia (suo il lungometraggio The End? L’inferno fuori) e scritto dai Manetti Bros., macabri omicidi e strane sparizioni popolano il piccolo e sonnacchioso comune di Bobbio.

È il 1988 e nell’unica sala del cinema (parrocchiale) del paese proiettano Nanni Moretti a ripetizione. Da quando l’inquietante famiglia Valmont ha messo piede in Val Trebbia per risvegliare una leggendaria creatura nascosta nella cripta dell’abbazia di San Colombano, il cineasta in erba Giò Spada (Tobia De Angelis) non dorme sonni tranquilli, complice un albo a fumetti che preannuncia con estrema precisione la carneficina in atto. Giò scova a Bologna, in un centralissimo e molto universitario appartamento di via Mascarella, il fumettista svogliato e negligente Diego Busirivici (un azzeccato Lillo Petrolo) autore della saga di serie B Squadra 666. I due formano così, come nel fumetto, un team di cacciatori di mostri al fine di liberare Bobbio dai temutissimi Valmont una volta per tutte.

È così che la realtà coincide con la fantasia: in Il Mostro della cripta, Misischia racchiude tutta l’immaginazione in un’estetica da cinema horror-demenziale, volendo essere coscientemente imperfetto, e quindi reale, nella continuità di montaggio spesso approssimativa, nella recitazione dialettale (parlano pressoché tutti in cadenza emiliano-romagnola), nel finale abbozzato e non davvero chiuso del tutto. Si può così dire che il film non rientra pienamente in quel multiverso nostalgico di cui sopra.

Certo, le citazioni alle pellicole cult di quegli anni sono tante (Shining, I Goonies, Alien, Ritorno al Futuro, Ghostbusters, solo per nominarne una manciata). Pullulano i riferimenti alle musiche di Francesco Guccini, Alan Sorrenti, Sabrina Salerno, così come è evidente il rimando a Dylan Dog e alla rivista Splatter. Non per ultimo, il film si avvale del prestigioso contributo dell’effettista Sergio Stivaletti, già collaboratore a suo tempo di Dario Argento, Lamberto Bava e Michele Soavi, che nulla lascia al caso e cura ogni dettaglio  di un arto amputato e di un cranio esploso. Fenomeno nostalgia, quindi, che viene leggermente ammortizzato da una componente dinamica e ritmata da espedienti comici seminati con precisione, in grado di smascherare alcune sottili critiche all’ecosistema di quegli anni.

La giusta direzione presa da Misischia è quella di un personale omaggio al cinema di genere, senza che si ecceda nella malinconia, che di per sé non aspira a grandi e trionfali risultati e che si concretizza in una più grande ed evidente dichiarazione d’amore verso il fare cinema in ogni tempo, periodo e con ogni mezzo possibile.