Nel 1969 una bomba mediatica sconvolse il panorama culturale americano: uscì nelle librerie Il padrino di Mario Puzo. Con oltre nove milioni di copie vendute e il New York Times in totale estasi, non ci volle molto a capire l’enorme potenziale di una trasposizione cinematografica del best-seller. Ma c’è chi, tra le Major, si era mosso in anticipo. Difatti, già nel 1967 Peter Bart, allora vicepresidente della Paramount Pictures, dopo una lettura delle prime sessanta pagine, si era prodigato per acquisirne i diritti anzitempo. A nome della casa di produzione, offrì allo scrittore dodici mila dollari e mezzo per finire il romanzo e ulteriori ottanta mila per lo sfruttamento cinematografico. Per Puzo, dilaniato economicamente a causa del suo insopprimibile vizio del gioco d’azzardo, quella fu un’offerta che non poté proprio rifiutare (parafrasando l’iconica frase).

Il primo problema fu quello di placare lo scetticismo che dilagava tra i corridoi dello studio, ancora scalfito dall’insuccesso commerciale dell’anno prima, La fratellanza di Martin Ritt, non troppo dissimile per tematiche. Urgeva che al timone registico ci fosse qualcuno non solo interessato all’universo mafioso, ma un cineasta ambizioso, in ascesa e possibilmente con origini italo-americane. Per cui i nomi che si succedettero sulla scrivania dell’allora presidente Paramount, Robert Evans, furono molteplici: a partire da Sergio Leone (impegnato nella lavorazione della sua opera più imponente, C’era una volta in America) e passando poi da Peter Bogdanovich, Elia Kazan, Arthur Penn, Costa-Gavras e altri ancora, tra cui Sam Peckinpah con la sua visione western dell’adattamento.

Infine, la scelta cadde sul trentaduenne, fresco di Oscar alla Miglior sceneggiatura originale per Patton, generale d’acciaio, Francis Ford Coppola. Nonostante una lavorazione in traballante bilico tra pretese, compromessi e budget rialzati quello che ne uscì è sicuramente uno dei grandi capolavori della cinematografia mondiale.

Il padrino, osannato già dalla schiera di critici e autori dell’epoca come Roger Ebert e Stanley Kubrick, è senza dubbio uno degli apici artistici della New Hollywood e ancora oggi è in grado di esercitare la sua fascinazione originaria negli occhi di chi lo guarda. Al centro della narrazione non ci sono più i gangster che animavano gli spazi scenici di Piccolo Cesare di LeRoy o di Scarface di Hawks, bensì le gesta della Famiglia malavitosa Corleone negli anni ‘40, qui raccontate in modo inedito. Si parla di vera e propria organizzazione mafiosa (termine che non compare mai né nel romanzo né nel film per un accordo sancito dalla Paramount con il boss mafioso Joseph Colombo), raccontata attraverso la dicotomia di valori dell’italo americano Vito Corleone, di prima generazione, ancorato al codice d’onore mafioso e il figlio americanizzato Michael, che è destinato nel corso della diegesi a cedere alle sue personali idiosincrasie.

C’è un'insita umanità ne Il padrino, visibile già nell’apertura. In un religioso silenzio e con una fotografia suggestiva fatta di chiaro-scuri, si è subito al cospetto di Don Vito Corleone (un Marlon Brando oscuro, qui già Colonello Kurtz). Una presenza epica e magnetica che mette in scena una fisicità dirompente e una mimica deforme. Garbato nei modi e brutale con le parole, incarna questa duplice natura creando un mito demitizzato, alimentato da rapporti di amicizia sinceri ed etica mafiosa. Del resto, Puzo (co-sceneggiatore) e Coppola imbastiscono il racconto cucendo insieme Iliade e Re Lear, intrecciando mito e storia, Omero e Shakespeare.

A concorrere al successo dell’opera sono non solo la fotografia di Gordon Willis che gioca con il buio e la luce - sfumature innate dell’animo umano che qui vengono sviscerate in maniera netta dall’ombra del magniloquente Padre, a sua volta rispecchiata dalla fragilità di un Figlio (Al Pacino), il quale per amor del primo si fa discepolo sincero e spietato della sua grandezza -, bensì anche dalle nenie e tarantelle di Nino Rota, da un cast di eccezionale bravura (oltre Brando e Pacino, James Caan, Robert Duvall, John Cazale) e dalle molteplici tematiche che si susseguono sullo schermo. La Famiglia e la Successione, il codice etico e la ferocia, il sangue e i baci.

Ogni inquadratura eccede l’intenzione antropologica della “Storia” per divenire puro Cinema, una concatenazione di perfette sequenze destinate a cristallizzarsi per sempre nell’immaginario collettivo (il ricevimento iniziale, la testa di cavallo, l’uccisione di Sollozzo). Tutta la maestria e cura dei dettagli è manifesta nei minuti finali nella sequenza del battesimo del nipote – e del nuovo Padrino - in montaggio alternato. E se da una parte Al Pacino rinuncia ad alta voce a tutte le opere del diavolo, nello stesso momento si dispiega un massacro di tutti i suoi rivali con un crescendo organistico enfatizzante della mise-en-scène. Un cocktail perfetto di sacro e profano destinato a fare scuola (si pensi al montaggio alternato del matrimonio nella prima stagione della serie italiana Romanzo criminale).

Ma Il padrino non è solo un film che narra le vicissitudini della Famiglia Corleone, ma innesca anche tra le fila del discorso un delicato ragionamento sulle istituzioni occidentali e sul capitalismo come patto economico-sociale, avvalendosi dell’american dream. Si pensi in tal senso all’acuta frase “’A pistola lasciala, pigliami i cannoli”, dopo l’omicidio, in campo lungo e la Statua della Libertà a vegliare inerme in profondità di campo. Ecco allora che l’intermezzo siciliano diviene un ritorno alle radici, un paesaggio epico intriso di pathos, un Olimpo mitico (non appare casuale la scelta del nome Apollonia per la moglie di Pacino), dove la mafia e i suoi codici centenari nascono – di vitale importanza nel testo di Puzo – e qui divengono mere funzioni narrative per alludere ad altro ancora.

Vincitore di tre premi Oscar – Miglior film, Migliore attore protagonista e Miglior sceneggiatura originale – e primo capitolo della Trilogia (Il padrino – Parte II, 1974 e Il padrino – Parte III, 1990), Il padrino fonde insieme istanze iconografiche e culturali antitetiche ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, in grado di intrattenere e ammaliare gli spettatori.