India 1947. Dopo quasi 90 anni di colonizzazione britannica, atterra a Nuova Delhi quella designata come la famiglia degli ultimi Viceré: i Mountbatten. Grazie all'azione del Partito del Congresso Nazionale Indiano e del Mahatma Gandhi i tempi sono ormai maturi, sta per arrivare la tanto agognata indipendenza. Ma, attenzione, "La storia è scritta dai vincitori", ammonisce il cartello che segna l’incipit del nuovo film di Gurinder Chadha (la regista britannica di origini indiane, già nota al grande pubblico per Sognando Beckham), Il palazzo del viceré: un’opera epica, scenograficamente scintillante e politicamente sottile.
Ciò che dovrebbe verificarsi come una naturale transizione da stato coloniale a stato autonomo (attraverso l’indipendenza dell’India concessa dalla Gran Bretagna), si traduce in uno dei più tragici eventi della storia di questo Paese, a causa della divisione, decisa a tavolino da Churchill, dell’India a maggioranza indù dal Pakistan musulmano, accompagnata da massacri e dallo spostamento volontario in esilio di milioni di “profughi”.
Per affrontare un tema di grande rilevanza storica, Chadha, coinvolta in prima persona dalle vicissitudini narrate, essendo la discendente di una delle famiglie che subirono la partition dell’India sulla propria pelle, sceglie una messa in scena spettacolare e tipica dell’epopea, rappresentando ogni singolo personaggio come un eroe. Primo fra tutti il vicerè impersonato da uno Hugh Bonneville (attore di formazione shakespeariana noto per la serie Downton Abbey) tutto d’un pezzo, dipinto come “capro espiatorio” usato dalla storia per assumersi responsabilità non sue. Al suo fianco l’acutissima moglie/Gillian Anderson, capace di dare un grande spessore umano al suo personaggio seppur di contorno.
In questa cornice di politica e potere, trova la sua perfetta collocazione la love story tra due giovani oriundi, la musulmana Aalia/Huma Qureshi, e l'induista Jeet/Manish Dayal, che sfidano le convenzioni e un destino avverso, per coronare il loro sogno d’amore all’ombra della Storia che scorre dentro al palazzo del vicerè. Tra inquadrature patinate, campi totali, prima sulla grandiosità del palazzo e sulla sua popolazione di circa 500 persone, e poi sulla miriade dei profughi sparpagliati tragicamente sui nuovi confini, la narrazione scorre in modo volutamente lineare per garantire probabilmente la sua massima comprensione.
Senza tralasciare infine qualche inserto che strizza l’occhio al melodramma e a Bollywood, come nella scena della festa in cui si celebra un fidanzamento e persino i protagonisti accennano i passetti di quelle danze indiane tanto irresistibili quanto cinematograficamente amabili.