Il cinema visivo e musicale di Max Ophüls, organizzato secondo ritmi, cadenze e vertigini, se lève nella pittoresca cornice di Piazza Maggiore e rivela ciò che Godard definì “l’impressionismo francese in uno specchio di Vienna”. Tale contaminazione resa dal regista franco-tedesco attraverso un dileguarsi di forme e corpi che anelano alla luce, sfalda le coordinate romanzesche in un parossismo febbrile che oscilla tra felicità e dolore: dopo la festa, il raccoglimento; prima il coup de foudre, poi la disillusione; il possesso che anticipa il disgusto; l’amore puro nell’alveo luttuoso della sepoltura morale. Non si è che immersi in un girotondo di piacere effimero, perché, come sentenzia l’auteur letterario alla fine dell’opera (Maupassant, da cui sono tratte le tre storie che compongono il film) “il piacere non è allegro”. E non bastano certo le improvvisate madeleine proustiane a riattivare i ricordi felici, come l’assenzio per l’incallito viveur anziano travestito da giovane o l’ostia e il ritiro bucolico per le donne di malaffare, perché la joie va a braccetto con la guerre delle passioni in eterno conflitto tra loro.

I personaggi ophulsiani sbucano dal nero dello schermo, come anticipato dalla voce narrante di Maupassant che sostiene di amare la notte e di provare felicità nel trovarsi a parlare ai “lettori” nell’oscurità per condividere la magica affabulazione collettiva. Non è forse questa una chiara allegoria del cinema? Già a metà Ottocento, con Una vita di Maupassant il posto dell’allegoria letteraria era cambiato: il mondo esterno si era rintanato nello spazio chiuso dei sentimenti e così’, forse, sceglie di operare anche Ophüls molti anni dopo, contravvenendo al cinema dell’intellectualité di baziniana memoria e all’eiaculazione oculare di Bresson, facendo entrare la vita dentro i suoi personaggi dissidiati tra sentimento e morale e non tirandola fuori dallo schermo; questa, la forza di una rivelazione catturata nel suo movimento centripeto, un fulmine di celluloide bloccato solo nel raccoglimento del ricordo perduto.

Secondo film francese del regista riabilitato da Truffaut, Il piacere annulla le distanze della messa in scena per creare un gioco di convergenze; azzera il dentro e il fuori, l’alto e il basso, il vicino e il lontano, grazie ai piani fluidi, alle riprese ardite e alle fughe improvvise che mettono sotto sopra, ingarbugliandolo, lo spazio sacro della memoria. Un giro di vite baldanzoso e pervaso da una gravitas “aerea”, come gli uccelli leopardiani che “cangiano luogo a ogni tratto” o come l’Islandese in crisi con l’empia Natura, sempre in moto per sfuggire l’infelicità. Ophüls ha saputo raccontare, per dirla con le parole di Truffaut, “la crudeltà del piacere”, le vanità e gli affanni dell’epoca moderna annegate nelle città brulicanti, nella flânerie indisciplinata e nel connubio tra vita attiva e vita contemplativa.