A pochi chilometri dall’ammaliante centro storico di Venezia sorge l’isola artificiale di Marghera. Realizzato nel secondo decennio del Novecento, questo quartiere nato su suolo paludoso, grazie all’azione dell’attività umana, è prosperato fino a diventare l’agglomerato industriale più grande d’Italia.  Un immane epicentro di attività produttive, dalla lavorazione siderurgica all’ingegneria navale, che a loro volta si sono fatte polo d’attrazione per altre imprese e sbocchi occupazionali, le cui maestranze hanno dato vita ad una nuova e corposa comunità situata ai margini della laguna. Andrea Segre dedica il suo nuovo documentario alle vite degli individui ancorati all’attività di questo polo operativo, neutralizzando la propria presenza ed attuando un pedinamento ravvicinato che permette alle semplici azioni quotidiane di farsi eloquente racconto di questo uggioso microcosmo.

Il suo sguardo si poggia su personaggi i cui percorsi non arrivano mai a toccarsi, ma è proprio nel gioco di incastri fra queste storie autonome che il regista veneto riesce a restituire le loro esistenze dipingendo un limpido e tenero ritratto. L’occhio registico si concentra su di essi portandone all’emersione i tratti comuni, accarezzando il rapporto conflittuale che li tiene ancorati a quel luogo. L’attrito emotivo che coinvolge i capi ingegneri che, avendo vissuto per lunghi periodi all’estero, si sentono richiamati dalla sonnacchiosa e famigliare vita di provincia, si rispecchia negli operai che pur traendo dai cantieri di Marghera la propria stabilità economica, vedono pendere su di loro la spada di un futuro incerto, sentendosi costretti ad ipotizzare una vita altrove.

Dramma che si riflette anche su chi ha investito in attività ricreative che ora non incontrano la richiesta di un tempo, producendo così l’evocazione di un passato cui si guarda con un animo affettuoso, senza riuscire a dissimulare la presenza di qualche rimpianto. Questo alone nostalgico che permea delicatamente ogni fotogramma, conferisce all’opera un sapore crepuscolare, rivelando una partecipazione emotiva dell’autore che ne amplifica il grado di autenticità e la conseguente forza comunicativa. Tutti ammettono la loro devozione ad un tempo trascorso ed ormai lontano, non necessariamente più felice rispetto al vacuo presente, ma ancora rilevante nel definire il loro radicamento su quella terra salmastra. Sullo sfondo di questi racconti di esistenze vissute ed in corso di mutamento, incombe l’imponenza della macchina industriale, che incessantemente richiama ed ingloba le minuscole vite che si dipanano al suo cospetto.

Portata in scena quasi fosse una titanica crea tura vivente, nelle cui viscere di tubature e condotti si adoperano i vulnerabili esseri di carne ed ossa, la fabbrica viene investita di un’attenzione che la porta ad essere il personaggio principale su cui si sofferma l’opera. Come un’immane bestia ammansita, familiare alla presenza umana ma pronta a punire ogni disattenzione con spietata e devastante furia, il centro industriale di Marghera rimane un pulsante ed opprimente concentrato di incontri, fatiche, speranze, amicizie o tensioni che Segre porta sullo schermo stupefacente delicatezza, evidenziandone le carenze e le problematicità, ma esaltandone parimenti l’intimo calore, sfruttando questo minaccioso pianeta di metallo affacciato sul mare come scenario per una malinconica elegia della semplicità.